A mio padre, l’americano
Un figlio scrive per raccontare gli stenti della guerra e il coraggio non ostentato di resistere al regime di Mussolini. Una pagina esemplare
Nella sua stringata semplicità, nella sua umiltà — umiltà in senso forte, universale vicinanza alla terra, humilis, humus, ha scritto in una mirabile pagina Stefano Jacomuzzi — questa lettera (inviata al padre, Giuseppe Antonio, da Leonardo Borgese ndr) è un eccezionale ritratto del trasformismo italiano. Non solo di quello evidente ed esplicito degli astuti e cinici camaleonti, ma anche di quello latente in chi si è trovato dalla parte giusta ma quasi per caso, non per un reale percorso della coscienza: «possono essere morti per causa nobile, quali antifascisti, ma potevano morire lo stesso, li conoscevo bene, per causa ignobile, da fascisti». Non basta la giusta causa, pur fondamentale e necessaria, per salvarsi l’anima e l’umanità. È su questo fondamento, su queste precise parole di Leonardo Borgese che si può fondare una reale — non retorica, non strumentalizzata né strumentalizzabile — riconciliazione fra le due Italie del ’43-’45, quella giusta ma non perciò esente da colpe e quella sbagliata ma non perciò esclusa dall’appartenenza all’umano.
Queste cose, per essere vere, potevano essere dette solo da un uomo come Leonardo Borgese, antifascista inflessibile che paga di persona sino all’ultimo la propria coerenza morale e non si lascia inebriare dalla vittoria, pur essendo felice della libertà. Si misura con i grandi ideali ma anche con le difficoltà quotidiane — i faticosi spostamenti con la famiglia nell’incalzare della violenza, la fatica di guadagnare per sé e i suoi il pane — senza che questi pesanti ostacoli offuschino mai la sua alta visione della Storia e della sorte dell’Italia, la passione
Esilio L’autore del romanzo «Rubè» era tra i 14 professori che non giurarono fedeltà al fascismo e attraversò l’Oceano
per la critica d’arte e per l’arte, la dedizione alla propria arte, alla propria pittura coltivata con passione ma per lungo tempo, come si è detto, in privato, per non entrare in conflitto d’interesse con il proprio esercizio pubblico della critica d’arte, la cui radicale onestà gli procura più nemici che amici.
Ma questa lettera è soprattutto una delle grandi «Lettere al padre» del secolo scorso che ne ha viste molte — a cominciare da quella di Kafka. È toccante, è commovente — pur nell’asciuttezza del tono — sentire come Leonardo abbia bisogno che il padre lontano (meritorio maestro non investito direttamente dalla tragedia, nella sua esistenza in America) conosca quello che egli ha fatto, l’animo con cui egli ha affrontato e superato le difficoltà, la dirittura e il coraggio che lo hanno sorretto, e che hanno sorretto la sua famiglia, in quegli anni così difficili. Ha bisogno che il grande padre lo stimi e conosca il dramma della sua esistenza e anche la dignità di quest’ultima. Mai compiaciuto e anzi inconsapevole della propria grandezza, Leonardo scrive a Giuseppe Antonio non per contestare, nemmeno inconsciamente, la sua grandezza ma per la necessità spirituale che il padre, lontano da molti anni, conosca la sua vita, il suo lavoro, il suo mai ostentato valore.
Il padre ha scritto libri famosi, è un’autorità indiscussa del giornalismo, della letteratura e della cultura; la sua casa, il Palazzo Crivelli a Milano, era frequentata, prima della sua andata in America, da Eleonora Duse e Gabriele D’Annunzio, Stravinskij e Grazia Deledda, Stefan Zweig e Guido Piovene, Filippo Turati e per una sera Benito Mussolini e tanti altri protagonisti della Storia e della cultura del Novecento. Come ha raccontato Corrado Stajano in un memorabile ritratto, in quelle serate i famosi ospiti mettevano la loro firma su una tovaglia di lino bianco su cui Maria Borgese — moglie di Giuseppe Antonio e madre di Leonardo, appartata ma essenziale anima di quelle sere — «ricamava paziente il nome e il cognome di ognuno con il cotone rosso, a punto erba, per dar forza, colore e memoria».
In quelle sere c’era la varietà della vita, la sua creatività e anche la sua fatua futilità. «Che tragiche sorti ebbero non pochi degli invitati di quelle piacevoli serate, uomini e donne protagonisti della cultura del secolo che s’incontrarono nelle grandi sale del Palazzo Crivelli, sui morbidi tappeti, sotto i lampadari scintillanti. Vittime della persecuzione contro gli ebrei, sui fronti di guer-