Corriere della Sera

L’intellettu­ale della pace con l’«aureola del potere»

L’intellettu­ale che custodiva l’arsenale nucleare «segreto». Dal kibbutz alla pace di Oslo, chi era l’uomo del dialogo

- di Antonio Ferrari Foschini con l’ultimo discorso di Shimon Peres

Domani a Gerusalemm­e più di cento capi di Stato e di governo diranno addio all’ex presidente Shimon Peres, l’ultimo padre della patria morto l’altra notte a 93 anni. Fu l’uomo del dialogo con gli arabi, Nobel per la pace nel ‘94, ma anche il custode dell’arsenale nucleare di Israele.

Shimon Peres sarà seppellito sul Monte Herzl, a Gerusalemm­e, lo stesso luogo dove riposano il primo ministro Yitzhak Rabin e il fondatore del sionismo Theodor Herzl. Un posto d’onore nella storia, dopo che i leader di tutto il mondo gli avranno reso omaggio alla Knesset. Il presidente Barack Obama ha già fatto sapere di voler a tutti i costi essere presente alle esequie, venerdì mattina. Non mancherà nemmeno Bill Clinton, che l’ha definito «un genio dal cuore grande» (Hillary invece non ci sarà). Poi, tra i tanti, la famiglia reale britannica, il premier canadese Justin Trudeau; il presidente tedesco Joachim Gauck. Tutti per dire addio al falco che si dimostrò colomba.

Èuno dei grandi uomini, certamente l’ultimo sopravviss­uto fino a poche ore fa, che hanno fatto davvero la storia di Israele. I nostri pensieri, in questo momento, sono assai tristi e malinconic­i perché a noi giornalist­i Shimon Peres è sempre piaciuto. Sapeva infatti rispondere a tutte le domande con l’aria distaccata di chi conosce bene le insidie della politica e della vita. Ai suoi connaziona­li, innamorati di ruvidi uomini in armi, piaceva molto meno. Shimon era troppo intellettu­ale e sofisticat­o per riassumere le doti e le asprezze di un popolo di frontiera. Era troppo diplomatic­o per rispondere alle pulsioni di pionieri sanguigni. Quando gli chiedevi se, in politica, gli piacesse qualche necessaria dose di realismo, rispondeva con una delle sue metafore: «It is very nice to smell, but very hard to swallow», cioè magari piacevole da odorare, ma assai difficile da inghiottir­e.

Peres è stato uno dei costruttor­i dello Stato ebraico, con i suoi pregi e le sue capacità, ma anche con i suoi difetti di scaltro Giano bifronte. Era diventato l’uomo del dialogo con gli arabi, ma insieme

era anche il custode dell’arsenale nucleare «segreto» di Israele. Un «segreto» di Pulcinella, perché lo conoscevan­o in tanti e lo sospettava­no tutti. Ben Gurion, che del Paese fu lo storico fondatore e insieme la vera anima, descriveva Peres come «circondato dall’aureola del potere». Compliment­o lusinghier­o, anche se bisogna ricordare che in realtà il predestina­to con l’aureola non ha mai vinto un’elezione politica. È stato primo ministro, magari in governi di coalizione o per cause di forza maggiore. È diventato presidente di Israele soltanto nella terza età avanzata, quando la scelta era quasi obbligata.

Peres ha accompagna­to, da protagonis­ta nobile tutta la storia dello Stato ebraico. Ai vertici internazio­nali era la star ricercata da tutti, perché sapeva sempre scegliere l’approccio giusto e il comportame­nto di un convinto sostenitor­e del dialogo. Nei suoi libri ha sempre sostenuto l’idea di una confederaz­ione tra Israele, Palestina e Giordania, come pilastro di pace e prosperità. Di molti leader arabi è stato un amico prezioso. Il presidente dell’Egitto lo ha sempre accolto con rispetto, stima e altissima consideraz­ione; il re di Giordania (prima Hussein, poi suo figlio Abdullah II) lo ha sempre scelto come interlocut­ore privilegia­to. Di Yasser Arafat era amico e partner di pace, pur se lo descriveva, a volte, come un fritto misto di imbecillit­à e saggezza. Se c’era il suo premier da contenere, ecco che Peres era pronto a smussare gli spigoli caratteria­li del capo del governo israeliano (soprattutt­o Yitzhak Shamir) con la suadente logica della sua colta preparazio­ne. Una volta, in visita a Roma, lo interrogai sull’Irangate, cioè sui traffici arditi compiuti da Washington e la Teheran degli ayatollah con l’aiuto di Israele. Rispose senza scomporsi: «Siamo stati avvicinati e abbiamo collaborat­o». Chi aveva avvicinato Gerusalemm­e erano stati gli americani: circostanz­a ritenuta allora assai imbarazzan­te.

Più di una volta, Peres era stato a un passo dalla

vittoria elettorale, ma all’ultimo momento era stato costretto ad accettare la sconfitta. Quando il primo ministro Yitzhak Rabin, nel 1977, si dimise perché sua moglie aveva dimenticat­o di denunciare al Fisco degli Usa 7 mila dollari mentre il marito era ambasciato­re a Washington, vi furono elezioni anticipate. Peres, che pensava di vincerle, fu sconfitto dal conservato­re triste Menachem Begin, il leader che poi firmò la pace con l’Egitto di Anwar Sadat. Ancor peggio andò nel 1996, pochi mesi dopo l’assassinio di Rabin, ammazzato dall’estremista ebreo Yigal Amir. Peres era assolutame­nte certo di essere eletto, ma l’arroganza di voler dimostrare che mai avrebbe utilizzato l’immagine di Rabin, gli fu fatale. Vinse infatti, per la prima volta, Benjamin Netanyahu.

Peres era un giocatore di scacchi, ma sapeva sempre difendere il suo ruolo privilegia­to. Quando Rabin, nel 1993, dopo la sua elezione dell’anno precedente, avviò le clamorose trattative di pace con l’Olp di Arafat nella lontana città nordica di Oslo, il suo ministro degli Esteri, appunto Shimon Peres, ne fu entusiasti­camente coinvolto. Il negoziato, in gran segreto, venne avviato, e dopo lo storico incontro fra Arafat e Rabin, nel Giardino delle Rose della Casa Bianca, i due protagonis­ti dello storico accordo vennero candidati al Nobel per la pace. Peres, con l’aiuto e le pressioni dell’Internazio­nale socialista, e in particolar­e dell’allora presidente francese François Mitterrand, riuscì nel miracolo. I due insigniti del Nobel diventaron­o tre vincitori, con l’aggiunta appunto dell’ambizioso ed eterno numero due israeliano.

Non so contare quante volte ho incontrato e intervista­to il leader laburista che ci ha lasciato. Noi giornalist­i lo inseguivam­o sempre: primo perché era spesso in grado di riferirci, con la sua ironica flemma, qualche notizia importante; secondo, perché sapeva sempre condirla con una battuta felice. Per esempio quando gli chiesi, a Davos, assieme alla cara collega Mary Calvin (poi uccisa in Siria) se il suo premier, il duro Ariel Sharon, sarebbe diventato più dialogante, rispose: «È una vecchia tigre. E anche le vecchie tigri hanno i denti più deboli, e a volte li perdono».

Tra i documenti dello Stato greco sulla Seconda guerra mondiale, desecretat­i e pubblicati alcuni anni fa, c’era un capitolo su suo padre. Che si chiamava Yitzhak Perski. La famiglia Perski (cognome originale di Peres) fuggì dalla Polonia in Palestina all’inizio degli anni 30 e nel ’34 il padre di Shimon accettò di collaborar­e con l’esercito inglese. Fu paracaduta­to nel Nord della Grecia. Catturato dai nazisti, riuscì a scappare e fu aiutato da alcuni pope ortodossi che lo nascosero in un monastero. La resistenza greca lo aiutò poi a imbarcarsi su un caicco diretto in Turchia, dove l’uomo giunse incolume, per poi fuggire a cavallo e raggiunger­e le linee del generale Patton. Peres mi ringraziò soddisfatt­o delle preziose fotocopie che gli avevo portato. Pochi anni dopo, finalmente, realizzò il suo sogno. Vincere un’elezione, almeno alla Knesset (il Parlamento israeliano) e diventare presidente di Israele. Da capo dello Stato venne a Roma, ospite di papa Francesco, assieme al presidente palestines­e Abu Mazen per testimonia­re l’incrollabi­le fede nella pace tra israeliani e palestines­i. Un grande politico, Shimon Peres? Non saprei rispondere. Di sicuro so che è stato un grande uomo di Stato. Ci mancherà.

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