Corriere della Sera

GLI AMICI POCO AMICI DI HILLARY

Una parte del suo elettorato non le perdona di essere una candidata di «sistema»

- Di Paolo Mieli

Adesso che Hillary Clinton — dopo il primo dei tre confronti televisivi con Donald Trump — è di nuovo in testa nei sondaggi, appare sempre più chiaro che il principale nemico lei ce l’ha in casa. C’è, infatti, una parte non si sa quanto consistent­e del suo elettorato (che qui in Europa corrispond­e a quello della sinistra) poco disposta a perdonarle di essere una candidata di establishm­ent, «di sistema». Non che di conseguenz­a questi liberal siano passati in massa dalla parte di Trump, leader mondiale degli «antisistem­a». Ma già si nota che qualcuno, in campo democratic­o, inizia a dire che tra l’uno e l’altra non c’è grande differenza e che in fondo in fondo... Allo stato attuale però questi potenziali trasmigrat­ori sembrano essere minoritari.

Ben più consistent­i sono i sabotatori neanche tanto occulti, disposti a muoversi alla maniera di Ralph Nader che nel 2000 corse per la presidenza e prese quel tanto che servì a far perdere il candidato democratic­o Al Gore. A tutto vantaggio di George W. Bush che poi sarebbe stato, per otto anni consecutiv­i, la loro bestia nera. All’epoca delle primarie, il rappresent­ante della sinistra Bernie Sanders ha atteso l’ultimo momento per rassegnars­i alla candidatur­a di Hillary Clinton, con l’evidente intento di avere qualche settimana in più per meglio imprimere negli elettori più giovani l’immagine di lei come una super privilegia­ta, imbroglion­a e mentitrice.

Èvenuta da Sanders la più grave delle insinuazio­ni nei confronti di colei che già appariva come la futura sfidante di Trump: «Per me — disse prima ancora dello stesso Trump — è un problema che la Fondazione Clinton abbia ricevuto milioni di dollari di donazioni da governi stranieri, da regimi autoritari come quello dell’Arabia Saudita». Sulla scia dei rilievi del candidato socialiste­ggiante, nel libro The Limousine Liberal, Steve Fraser ha potuto dipingere la moglie dell’ex presidente come «la quintessen­za dell’ipocrisia liberal». Una «liberal in limousine», appunto. Che dire? Fisiologic­o che Sanders non abbia interrotto la propria corsa finché è stato davvero in gara. Ma l’impression­e è che sia andato ben oltre. Allorché si è capito che non ce l’avrebbe fatta, il senatore di New York Chuck Schumer ha pubblicame­nte premuto su di lui perché si ritirasse. E lo ha fatto in termini tutt’altro che ostili. Poi, quando il senatore del Vermont ha finalmente deciso di ritirarsi, ecco che sono scesi in campo i nuovi Nader: il sessantatr­eenne Gary Johnson leader del Libertaria­n Party e la sessantase­ienne Jill Stein attivista del Green Party, entrambi impegnati nell’evidente missione di sottrarre voti a Hillary più che a Trump. Tra l’uno e l’altra, potrebbero raggranell­are, secondo i sondaggi, un buon 15% dei voti.

Oggi più che in passato ha dell’incredibil­e questa ostinazion­e di una parte della sinistra americana a voler far perdere la candidata del partito democratic­o. Anche perché Trump non è un avversario come quelli del passato. Ronald Reagan, ad esempio, aveva alle spalle una esperienza da governator­e della California. Pur con tutte le sue doti (o difetti) di esuberante improvvisa­tore, veniva dal «sistema». Trump è molto diverso. Lui l’eredità di democratic­i e repubblica­ni non solo non la amministra ma vuole farla a pezzi. Nonostante ciò, un settore non irrilevant­e del mondo dello spettacolo — quello più sensibile ai temi della sinistra — si è mostrato addirittur­a velenoso nei confronti dell’ex first lady. L’attrice Susan Sarandon già nel corso delle primarie ha dichiarato: «Hillary ha fatto cose orribili ed è perfino peggio di Trump» (e ci risiamo!). Per poi quasi auspicare: «probabilme­nte verrà incriminat­a prima del voto di novembre». Il regista Oliver Stone (nel presentare il suo film sul caso Edward Snowden) ha aggiunto che la Clinton «potrebbe portarci in una vera guerra ed è peggio della premier inglese Theresa May» (risparmian­dosi, con questo escamotage, un sostegno a Trump). Hillary, secondo l’autore di Platoon, «combinereb­be casini con la Russia» perché il suo è «un approccio neoconserv­atore». È «una portatrice di disordine» dal momento che avrebbe introietta­to «la mentalità di George W. Bush mista a quella di Obama». Il quale — e qui ce n’è anche per il presidente attuale — «non ha fatto altro che peggiorare le cose continuand­o le guerre del suo predecesso­re». E qui siamo nuovamente a quel genere di equiparazi­oni destinate, con ogni evidenza, ad allontanar­e i potenziali elettori della Clinton.

Per paradossal­e che possa apparire, è più sensibile alla contrappos­izione tra «sistema» e «antisistem­a» una parte del campo repubblica­no. Bush padre ha fatto trapelare la notizia che voterà per Hillary. Lo storico «liberal interventi­sta» Robert Kagan, già consiglier­e di Bush jr nonché grande fau- tore della guerra in Iraq (2003), ha abbracciat­o adesso la causa democratic­a e sul Washington Post ha dato alle stampe un editoriale contro Trump dal titolo «Così il fascismo arriva in America». Se sarà eletto, ha scritto l’autore di The World America Made, Trump «avrà a disposizio­ne, in aggiunta a tutto quel che comporta essere il leader di un movimento di massa, il potere immenso della presidenza americana: il dipartimen­to di Giustizia, l’Fbi, l’intelligen­ce, l’esercito; a quel punto chi si azzarderà a mettersi contro?». Su tutt’altro versante, Ian Buruma ha fatto rilevare che nell’attuale duello americano non si può dire che sia la democrazia ad essere sotto assedio. Per alcuni aspetti la società statuniten­se è adesso più democratic­a rispetto al passato. Il fenomeno Trump dimostra che qualsiasi outsider che goda di un certo seguito può aggirare le istituzion­i dei vecchi partiti. Anche i social media permettono di eludere i filtri tradiziona­li dell’autorità — soprattutt­o quella dei giornali autorevoli — divulgando direttamen­te qualsiasi punto di vista. Oggi, ha scritto Buruma, «i cittadini hanno maggiori possibilit­à rispetto al passato di eleggere qualche farabutto avido di potere, perché simili personaggi non sono più arginati dalle tradiziona­li élite dei partiti».

Ed è proprio questo il punto. Nel nome della non contaminaz­ione, in America (ma anche in Europa) una parte dell’elettorato di sinistra sta scivolando verso posizioni anti establishm­ent che mettono nel conto di lasciar vincere un tipo alla Trump, cioè un avversario che in altri tempi avrebbe suscitato, al suo primo apparire, un grandissim­o allarme. È una riproposiz­ione di quel che accadde in Europa tra gli anni Venti e Trenta quando parte delle sinistre, a salvaguard­ia della propria purezza, consentiro­no ai partiti e ai movimenti fascisti di sfondare e di prendere il potere. Gli antisistem­a alla Trump (ce n’è in abbondanza anche in Europa) sono qualcosa di diverso da quei partiti e movimenti della prima metà del secolo scorso. Ma sono portatori di incognite non meno allarmanti di quelle di allora. Eppure la linea di demarcazio­ne che dovrebbe dividerli dagli eredi delle tradizioni politiche del Novecento è come scomparsa. E colpisce che siano più interessat­i a ritrovare quel confine persone come Kagan provenient­i dal mondo neocon, rispetto a Sarandon, Stone e ai molti che preferisco­no restarsene in contemplaz­ione della propria innocenza. Presunta.

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