SERVE UNA PROVA DI REALISMO
Nel suo studio firmato da Jan in ‘t Veld, la Commissione osserva che in Germania gli investimenti pubblici in proporzione al reddito viaggiano sotto la media europea dal 1995, ma un loro aumento dell’1% per un decennio farebbe bene a tutti: la crescita annuale del Paese sarebbe più forte del 2,4%, quella in Italia o Francia dello 0,5%, mentre l’aumento del debito tedesco sarebbe appena del 2,5% in dieci anni.
Difficile capire se sono calcoli esatti, ma è l’aria del tempo. Il governo italiano prevede debito e deficit più alti di quanto annunciato fino a pochi mesi, in una cornice internazionale che sta evolvendo. Prima il Giappone, poi il G20, infine il Fondo monetario internazionale e in parte anche la Commissione Ue propongono (o accettano) un uso più attivo dei bilanci pubblici. Anche negli Stati Uniti sembra solo questione di tempo, chiunque entrerà alla Casa Bianca nel 2017. È ormai saggezza convenzionale che oltre diecimila miliardi di liquidità immessa nelle economie dalle grandi banche centrali non bastino a rianimare i tassi d’inflazione e di crescita. I governi dovranno compiere parte dello sforzo spendendo, investendo, o tagliando le tasse.
Il posto dell’Italia nel perimetro di questa nuova saggezza convenzionale resta però una questione diversa. Non è vero in automatico che il Paese a cui fa capo il 10% del debito pubblico del mondo e il 2,4% del reddito, con un’economia cresciuta in media dello 0,46% negli ultimi vent’anni, possa ispirarsi a ciò che si chiede alla Germania di fare. Non lo è, anche se ufficialmente è per questa ragione che il governo adesso propone che deficit e debito di fatto non scendano.
Quanto al merito, le ipotesi alla base del progetto di bilancio sembrano fragili. Non è solo che, nella sua successione di programmi dal 2014, il Tesoro ha nettamente sbagliato per eccesso dieci volte su dieci le previsioni di crescita per quest’anno e, ormai è certo, anche per il prossimo (Commissione Ue e Fmi non hanno fatto molto meglio). È anche un’occhiata a come vanno le cose ad alimentare i dubbi. Per centrare la crescita di 0,8% prevista nel 2016 l’economia dovrebbe salire di 0,15% in questo trimestre e nel prossimo, eppure tutti i segnali dai direttori degli acquisti delle imprese, dall’export, dalle costruzioni, dalla fiducia, dal commercio, dagli ordinativi, e dal calo del credito puntano nell’altro senso: crescita zero, o sotto. In queste condizioni non è scontato che il governo stia fondando il proprio bilancio di quest’anno e del prossimo, almeno per questa volta, su valutazioni realistiche.
A sentire le dichiarazioni sembrerebbe invece che tutto si riduca a una disfida con Bruxelles per ottenere più «flessibilità», cioè diritto a fare più debito a carico degli italiani. Dato che il confronto con la Commissione Ue è ormai profondamente politico, con il referendum costituzionale e lo spauracchio delle forze anti-sistema alle porte, non sarebbe strano se alla fine l’Italia riuscisse a passare fra le maglie del Fiscal Compact anche stavolta. Del resto è la stessa struttura bizantina delle regole europee che invita ad aggirarle nel modo più inutile: bonus dopo bonus, distraendo le energie di tutti dal disegno di programmi di investimento coerenti, lineari e alla fine efficaci per le prospettive dell’economia.
In fondo il problema è proprio qui: l’impegno a smontare il Fiscal Compact pezzo a pezzo, miliardo dopo miliardo speso a pioggia, sta dando forma a un bilancio costoso ma incapace di aumentare il potenziale di crescita dell’Italia. Si spendono preziose risorse per aumentare le pensioni medio-basse, senza curarsi di conoscere il reddito di ogni famiglia beneficiaria. Si sfilacciano i vincoli della riforma previdenziale, senza pensare che la povertà da anni si concentra piuttosto fra i giovani.
Certo il Fiscal Compact europeo di fatto non è più un vincolo, ma questo non significa che non ne esistano altri. Quando la Bce rallenterà il suo piano di acquisti di titoli di Stato, e la marea della liquidità calerà appena un po’, non sarà difficile capire chi stava nuotando nudo.