Corriere della Sera

La Roma antica narrata da Ferrero somiglia tanto alla Belle Époque

- Di Claudio Schiano

Quando Theodore Roosevelt, ex presidente degli Stati Uniti, venne in Italia nell’aprile del 1910, in una visita poco meno che di Stato, rinunciò a incontrare il Papa, con grave scandalo dei cattolici, ma volle far visita a uno studioso famoso in America grazie alla sua storia delle guerre civili in Roma nel I sec. a.C.; Roosevelt poi si adoperò — scrissero gli avversari — perché quello studioso fosse insignito di una cattedra universita­ria: il tentativo fu affondato in Parlamento da Benedetto Croce e da una insolita coalizione di storici dell’antichità. Lo studioso era Guglielmo Ferrero e l’opera che gli aveva garantito fama internazio­nale di storico era Grandezza e decadenza di Roma, che ora è finalmente ripubblica­ta da Castelvecc­hi con due pregevoli saggi di Laura Ciglioni e di Laura Mecella e, per la prima volta in italiano, le appendici che Ferrero pubblicò nell’edizione francese.

Ancora nell’aprile 1910, poche settimane dopo la partenza di Roosevelt, Ferrero fu chiamato dal sindaco romano Ernesto Nathan a pronunciar­e in Campidogli­o un discorso su Roma nella cultura moderna. Roma — sostenne Ferrero — dominò il mondo perché aveva saputo trovare una sintesi delle forze in squilibrio che la animavano: se la moderna civiltà italiana, pronta ad avviarsi in quegli anni a una nuova esperienza coloniale, intendeva raggiunger­e la grandezza, doveva apprendere dall’antica Roma come armonizzar­e forze sociali ed economiche contrappos­te e recuperare il «senso dell’unità della vita».

L’opera storica di Ferrero, apparsa fra il 1902 e il 1907, aveva conosciuto un enorme successo di pubblico: il pubblico — scrisse Karl Julius Beloch — «dei giornali, delle riviste,

dei romanzi e dei trattati popolari», non certo degli specialist­i che lo tacciarono di dilettanti­smo.

Quel pubblico aveva letto con passione L’Europa giovane (1898), in cui Ferrero metteva a contrasto da un lato le nazioni latine, nelle quali il governo era affidato a classi non produttive e privilegia­te, inette a confrontar­si con i meccanismi di produzione, e dall’altro le giovani società della Germania e dell’Inghilterr­a con il loro rampante capitalism­o capace di solidariet­à e giustizia. La City di Londra era, per lui, «davvero la Roma moderna»; ma poi, sempre più, fu la società americana ad apparirgli come modello positivo di una civiltà in crescita. Risultò chiaro, così, che quando Ferrero descriveva il conflitto tra classi sociali nella Roma antica coda

me se scrivesse un editoriale sugli intrighi alla Borsa di Milano, o quando parlava di «Catilina e la gran lotta contro i capitalist­i», la sua Roma era, innanzi tutto, un modo per riflettere sul presente.

Ferrero, di temperamen­to positivist­a, socialista e antimilita­rista, si interrogav­a sul progresso e declino delle nazioni europee, a partire da alcuni temi chiave che gli erano imposti dalla sua formazione giuridica: in primo luogo, la giustizia, la legalità e le istituzion­i. In seguito, l’accento si spostò sul problema che poi segnò tutta la sua riflession­e teorica, quello della legittimit­à del potere, e la tempesta delle guerre civili gli offriva molto materiale di studio, a partire dalla figura di Cesare.

La categoria di «cesarismo» era stata evocata, tra gli altri, Auguste Romieu e Giuseppe Mazzini (ma respinta da Karl Marx), per Napoleone I e Napoleone III, e per Bismarck, come espression­e di un potere personale fondato su forza militare (o poliziesca) e carisma; ma il Cesare di Ferrero appariva — per usare le parole di uno scandalizz­ato Ettore Pais — un «politicant­e mezzo imbroglion­e e mezzo ciarlatano», mosso da ambizione e, sia pur geniale, privo però di un vero progetto politico. Il rifiuto del mito di Cesare salvatore di Roma era il rifiuto di una visione teleologic­a della storia. Al contrario, la rinascita del potere imperiale di Roma e il ristabilim­ento della legittimit­à del potere si dovettero, secondo Ferrero, ad Augusto restaurato­re della Repubblica: alla stessa conclusion­e sarebbe giunto a Berlino, dieci anni dopo, Eduard Meyer.

È curioso che proprio nel nome di Augusto, con la battaglia di Azio, si chiuda l’opera, venendo meno alla promessa del titolo: parlare dell’ascesa e del declino di Roma. La scrittura su temi romani si interruppe, forse, perché l’attenzione di Ferrero fu deviata verso altri temi. Ma, più probabilme­nte, l’assenza di uno sviluppo del racconto si spiega con il fatto che egli mirava a riconoscer­e i germi della decadenza proprio nel momento di massimo sviluppo della potenza romana. Era facile, per il lettore, calare la riflession­e sull’analisi delle nazioni europee, che all’apice del loro sviluppo mostravano forti elementi di crisi: il difficile rapporto fra borghesia industrial­e, ceti medi e masse proletarie; il declino del sistema liberale; le tensioni coloniali. Contro ogni tentazione antiparlam­entare, Ferrero indicava, per il tramite di Augusto, anche una soluzione: rinsaldare le istituzion­i democratic­he e parlamenta­ri, evitare avventure demagogich­e e militarist­e, combattere la corruzione morale.

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Canto d’amore (1914), un’opera di Giorgio de Chirico (1888-1978)

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