Quelle violenze sui bambini in un mondo senza risposte
Tre festival, rassegne, eventi, il teatro (e la danza) nel mese di settembre hanno goduto del favore degli dei per venti, venticinque, trenta volte. Chi siano gli dei non so, non lo sappiamo perché chi siano gli dei non si può sapere; e perché ciò accada è difficile dire. Si potrebbero fare una quantità di ipotesi, quasi nessuna simpatica, meglio tralasciare. L’unica certezza è che scorrendo i programmi viene da piangere. Fanno piangere i titoli degli spettacoli, i nomi degli autori sono sconosciuti.
Uno di questi, considerato un’autorità nel campo del teatro politico, lo svizzero Milo Rau, dichiarò di preferire i personaggi di Empire (roba sua, tratta da sciagure contemporanee) a quelli di Euripide. Tra la «roba sua» il Terni festival, con il sostegno dello stabile dell’Umbria, ha presentato Five Easy Pieces: uno spettacolo dedicato a Marc Dutroux, il mostro di Marcinelle, uno dei tanti che appassionano noi europei e, probabilmente, in pari misura gli americani. Basterà pensare a Josef Fritzl, il padre-padrone di Amstetten, o all’incontrastato successo di Breivik, il settantasette volte assassino di Utoya. Chi non si è occupato di lui? In genere si incolpano i giornalisti di pescare nel torbido, ma anche gli altri non scherzano: psicologi, sociologi, romanzieri e perfino poeti.
A suo modo, un poeta è proprio Milo Rau. Egli, alla soglia dei quarant’anni, guarda ancora all’infanzia. Ed ecco, allora, la sua idea — di fronte al mostro, al pedofilo: la pedofilia, «il più grande tabù del nostro tempo». Dice Rau: «Volevo vedere qualcosa che non vogliamo vedere. Volevo che fosse rappresentato dai bambini per sollevare una serie di domande emotivamente scomode: cosa provoca in noi vedere dei ragazzini recitare scene di violenza, o di amore e romanticismo? Che impatto ha lo spettacolo su questi sette protagonisti? Come possono i bambini cogliere il significato di parole come empatia, perdita, sottomissione, delusione, ribellione sociale?».
Se una risposta c’è, nel corso delle prove l’avrà colta lui. Noi abbiamo visto una bambina parlare di penetrazione e di sangue di fronte a una cinepresa che ne proiettava il viso su uno schermo; o un adolescente malamente travestito da anziano (il padre del pedofilo); o un altro fare il poliziotto gingillandosi con una pistola. Ciò che dicevano non provocava alcun effetto, le loro non erano di sicuro parole di Euripide, non erano previsti né dramma né catarsi.
Forse a Milo Rau il suo lavoro procura piacere e, come dice lui, interesse. A noi spettatori, una modesta domanda. Sì, in effetti, che rapporto potrà mai esserci tra la bambina stuprata dal mostro, quella che la impersonava nella docu-fiction (per usare un termine che denuncia la nostra impotenza, o mancanza di fantasia), quell’uomo che le porgeva le domande in qualità di intervistatore o di regista, e lo stesso regista o, propriamente, noi spettatori, mille miglia remoti dall’accaduto e dalla sua rappresentazione, così priva di risposte alle domande così ansiosamente avanzate?