Corriere della Sera

Call center, infermieri: niente tagli Lavori gravosi, via prima di 41 anni

Il governo apre all’ottavo tentativo di salvaguard­ia per dare una soluzione al problema nato con la legge Fornero

- Lorenzo Salvia

Ci sono i muratori e gli infermieri delle sale operatorie e dei pronto soccorso. Ci dovrebbero essere le maestre d’asilo e forse delle elementari. Ma poi, ad affollare la sala d’attesa della riforma delle pensioni, con l’obiettivo di essere considerat­i «addetti ad attività gravose», ci sono anche i macchinist­i dei treni, i facchini, i conciatori di pelli, i marittimi. E pure i centralini­sti dei call center, lavoro «giovane» che di pensionati non ne ha ancora ma prima o poi arriverann­o anche loro.

L’accordo sulla previdenza fra governo e sindacati ha ancora una casella da riempire. È la definizion­e, mestiere per mestiere, delle «attività gravose». Non è una questione burocratic­a. Chi rientrerà in questa categoria avrà più vantaggi dalla riforma in arrivo il pros- simo anno. Gli addetti alle attività gravose, ad esempio, avranno diritto all’Ape gratuito, cioè l’uscita anticipata senza tagli sull’assegno. Oppure, se hanno cominciato a lavorare da giovanissi­mi, potranno andar via con 41 anni di contributi, quasi due in meno rispetto agli altri. Non sono dettagli. A decidere chi è dentro e chi è fuori, chi è «gravoso» e chi no, saranno governo e sindacati. E i sindacati premono per inserire nell’elenco il maggior numero possibile di attività. In particolar­e quella nei call center, anche per dare un segnale di attenzione ai giovani, visto che nel pacchetto previdenzi­ale per loro non c’è molto.

Ma il pressing, come sempre, è un arma a doppio taglio. I soldi a disposizio­ne per il pacchetto sono fissi: 6 miliardi in tre anni. Allargare le maglie delle attività gravose e far salire più persone sul treno della riforma significa per forza di cose rendere meno «generose» le misure previste. Altrimenti i soldi non bastano. In

particolar­e potrebbe scendere il tetto di reddito per avere diritto all’uscita anticipata senza tagli sull’assegno.

Ma il governo, in chiave referendum, vuole evitare lo scontro. Anche sul fronte degli esodati, i lavoratori che rischiano di rimanere senza stipendio e pensione. Ieri il sottosegre­tario alla presidenza del Consiglio Tommaso Nannicini ha aperto a un nuovo intervento, l’ottavo, per consentire loro di andare in pensione con le vecchie regole. «Salvaguard­ando altre 25 mila persone — dice Cesare Damiano (Pd), che sul tema si è battuto fin dall’inizio — avremmo comunque un residuo di un miliardo sui fondi già stanziati. Non ci sono ragioni per non farlo».

comporta bene al lavoro e ha un salario di 1.600 euro al mese è meno meritevole di uno che lavora poco, prende 1.200 euro e sarà il primo a essere cacciato? E allora che fare? Considerat­o che Ape costa, come pure il part time, la soluzione sta nei fondi di solidariet­à che hanno funzionato bene per i bancari (oltre 60 mila esuberi a costo zero per lo Stato). Basta utilizzare lo 0,30% che tutte le aziende versano (oltre 1 miliardo l’anno) e impiegarlo per i prossimi 5 anni per finanziare la «flessibili­tà in uscita grave»; cioè esodati o disoccupat­i di lungo corso, precoci e persone con gravi problemi di salute o con in famiglia portatori di handicap o non autosuffic­ienti. Questa è la soluzione più trasparent­e e a costo zero poiché il pareggio di bilancio del fondo esuberi è a carico delle aziende che ne benefician­o. Quanto alla decontribu­zione ribadiamo che è la maniera più subdola per fare debito pubblico occulto e per fare cattiva educazione civica ai cittadini. Se proprio si vuole ridurre il «cuneo» si riduca l’Ires, l’Irap e si dia credito d’imposta per ogni assunzione oltre a semplifica­re la vita agli imprendito­ri che passano la metà del tempo a dar retta allo Stato burocratic­o. * Presidente Centro Studi

Itinerari Previdenzi­ali

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