Vico Equense lancia la sfida all’Unesco. E fa tornare Cannavacciuolo
Il paese si candida a capitale culinaria. Qui lo chef aprirà un hotel, intanto raddoppia il locale a Torino
vete fame? Benvenuti a Istanbul. La città in cui «ogni ingrediente è un’istituzione e ogni pasto ha il suo ristorante», scrive la food writer Pomme Larmoyer nel libro che ha appena dedicato al cibo turco (Istanbul. Le ricette di culto, Guido Tommasi Editore). C’è il kahvalti salonu per fare colazione, la lokanta per i cibi pronti, il kahvehane per bere il caffè. E la meyhane, la taverna, per pasteggiare con i meze (o mezze, o ancora mezzé), gli antipasti misti che sono arrivati in Turchia dalla Grecia e dall’Armenia e che si trovano anche in Libano, in Israele, nel Nord Africa. Fagottini di ceci, melanzane allo yogurt, involtini di riso in foglie di vite, pasta fillo ripiena agli spinaci. E molto altro, dalle salse ai sottaceti. Si mettono al centro del tavolo e si mangiano tutti insieme accompagnandoli con il raki, l’acquavite aromatizzata all’anice. Queste ricette sono il risultato di secoli di storia e contaminazioni e ogni meyhane ha i suoi meze speciali. Per questo la società americana McCormick li ha inseriti nel «Flavour Forecast», la previsione annuale delle tendenze gastronomiche: «Saranno tra i gusti più in voga del 2016: una deliziosa introduzione alla cucina mediorientale, vibrante e piena di sapori».
Pronostico azzeccato. Questo è l’anno in cui i meze sono usciti dai ristoranti strettamente etnici delle capitali occidentali — dove comparivano come semplici antipasti — per diventare il piatto principale di appositi bistrot, i cosiddetti «meze bar». Gestiti da giovani libanesi, turchi, israeliani e greci capaci di andare incontro a un pubblico vasto grazie a location furbe e a un’offerta gastronomica bilanciata tra sapori veraci e flessibilità. Come ha scritto la rivista Restaurant, molti ristoranti mediorientali negli ultimi tempi hanno scelto questa strada: «alleggerire» i tratti etnici per intercettare un gusto più vasto.
Prendiamo il «Mezz» di Parigi, aperto lungo il canal Saint-Martin da due ragazze francesi di origine armena: qui i meze sono di sette tipi — salse, pasta fillo, bulgur o tabouleh, polpette, insalate, spiedini e stuzzichini — si mangiano oco più di ventimila abitanti stretti tra le colline e il mare. E un numero impressionante di ristoranti (150), alberghi (130), artigiani (500 tra casari, panettieri, frantoi), aziende agricole (300). Ma anche di prodotti tipici — dal Provolone del Monaco dop ai fagioli butirri, dall’olio ai pomodori — e di cuochi stellati, ben cinque, che richiamano turisti da tutto il mondo. Israeliani, americani, russi, arabi. Un flusso che arriva pure fuori stagione, con gli hotel che per la prima volta ricevono prenotazioni dopo il mese di settembre. Vico Equense, meta non troppo nota del golfo di Napograndi sul posto oppure si portano a casa, ma volendo si può scegliere anche altro. Pite ripiene, falafel, piatti completi. E c’è anche l’aperitivo «Mykonos style» (olive, feta e raki). Una moderna meyhane, insomma, solo un po’ meno specializzata rispetto a quelle di Istanbul.
A Tooting, quartiere a sud di Londra, il trentenne libanese Hikmat Antippa ha inaugurato un locale simile, il «Meza», posticino familiare che serve meze caldi, meze freddi, otto piatti principali e che in breve tempo è diventato un punto di riferimento della zona. Nel Queens, a New York, il miglior caffè greco della città, «Agnanti», serve un intero pasto a base di meze: formaggio saganaki al forno, salsiccia greca sfumata al vino e crocchette di zucchine. Anche a domicilio. Più recente e trendy, invece, l’israeliano li, si sta rivelando un distretto del cibo in miniatura dalle enormi potenzialità. Per valorizzare questo patrimonio il Comune ha deciso di candidarsi a «Città creativa per la gastronomia» dell’Unesco, titolo che finora in Italia ha ottenuto solo Parma. Una sfida difficile e lunga: il bando aprirà nel 2017. Ma l’obiettivo, presentato la scorsa settimana al Salone del Gusto di Torino con una cena firmata dai cinque cuochi big (il bistellato Gennaro Esposito, «Torre del Saracino» e gli stellati Domenico Iavarone, «Maxi», Marco del Sorbo, «Accanto», Giuseppe Guida, «Osteria Nonna Rosa», Danilo di Vuolo, «la Caletta», più il pasticcere Raffaele Cuomo) è chiaro: creare una rete ricettiva di alta qualità.
E se è vero che in questo gli chef si sono già dati da fare — Esposito ha inventato 15 anni fa «Festa a Vico», reunion di I sapori etnici più forti si «alleggeriscono» per intercettare gusti molto più vasti Si prestano a essere condivisi tra commensali: una formula che spopola Origini Antonino Cannavacciuolo lavora in Piemonte ma è nato a Vico Equense cuochi che coinvolge anche negozi e botteghe locali — adesso in ballo c’è di più: la visibilità internazionale. Perciò l’idea è trasformare la Festa in un appuntamento itinerante da ripetere più volte l’anno in diverse città, con invitati anche stranieri.
Ma non solo. C’è un altro chef, nato a Vico e poi emigrato, che aprirà un’attività nel suo paese d’origine. La star di Cucine da incubo e Masterchef Antonino Cannavacciuolo, due stelle Michelin al «Villa Crespi» sul lago d’Orta, sta progettando di trasformare un casolare di famiglia sui colli vicani in un hotel con sei-sette camere di charme circondate da frutteti e orti. Ci sarà anche una piccola cucina che servirà i prodotti coltivati in loco. La struttura non sarà pronta prima di due-tre anni, ma di certo interesserà i turisti gourmet che già vedono in Vico una meta da non perdere. Tornando al Nord, Cannavacciuolo sta per raddoppiare la sua formula bistrot: dopo l’apertura a Novara, un anno fa, in primavera toccherà a Torino, vicino alla chiesa della Gran Madre. Cucina aperta per pranzo, aperitivo e cena, al timone uno chef giovane formato da lui e prezzi accessibili. Per ampliare l’offerta. E rafforzare il brand.