Addio a Wajda, regista della Storia
Addio al maestro del cinema polacco: testimone delle tragedie del ‘900 raccontò il nazismo, Stalin e Solidarnosc
Andrzej Wajda, il grande regista polacco, morto domenica notte a 90 anni a Varsavia, si porta dietro le tragedie del Novecento di cui il suo cinema è stato testimone. Prima il nazismo, la lotta contro gli invasori, l’Olocausto del ghetto (Generazione, I dannati di Varsavia e Cenere e diamanti, il primo assassinio del giorno di pace). E poi lo stalinismo e la sovietizzazione dei paesi dell’Est con l’operaio stakanovista di L’Uomo di marmo, seguito da L’uomo di ferro, 1981, Palma a Cannes.
Prosegue la storia verso i cantieri in sciopero di Danzica del 70 e la nascita di Solidarnosc cui il regista aderirà firmando anche un biofilm su e con Lech Walesa in cui Maria Rosaria Omaggio recita la Fallaci. E con l’arrivo di papa Wojtyla nel 78 il cerchio si chiude: Polonia superstar. Così a un certo punto Wajda, nato il 6 marzo del 1926 a Suwalki, sente di dover chiudere col passato, con la giovinezza travagliata quando fu allievo dell’Accademia di Cracovia (fu pittore scenografo) e uscì dalla scuola di cinema di Lodz, firmando il suo primo film un anno dopo la morte di Stalin nel ’54. Lascia alle spalle il dolore privato e collettivo della guerra, mentre confessa il suo ‘68 con L’amore a 20 anni e l’autobiografia Tutto è in vendita influenzato da Fellini.
Portatore sano di una idea di cinema che si assume il peso morale, confessa: «Come si può dire la verità sul nostro Paese, essendo talmente complessa?». Magari prendendo spunto da libri, certo che ogni adattamento deve essere crudele (Linea d’ombra di Conrad, Le signorine di Wilko di Iwaskiewicz, Paesaggio dopo la battaglia di Tadeusz Borowski, scampato ai lager). Lavora assiduo in teatro, riduce molto Dostoevskji fra cui un memorabile Idiota con un attore giapponese nel duplice ruolo di Nasassia e Mishkyn: firma uno storico Amleto nell’81 in cui fa coincidere vita e teatro, tanto che alcuni suoi film hanno un precedente in scena (Le nozze, I dèmoni e Danton che farà con Depardieu); riduce il capolavoro la Classe morta di Kàntor. Ma soprattutto apre gli occhi sul mondo affinché nulla resti impunito: nel 2009 firma Katyn sull’eccidio voluto nel ’40 da Stalin di 22.000 soldati polacchi che non ebbero mai sepoltura e fra cui anche il padre del regista, ufficiale di cavalleria.
Era atteso a Roma per Afterimage, sul controverso pittore di avanguardia Wladyslaw Strzeminski (1893-1952), vittima del realismo socialista. Fu autore che sposò la causa di deboli e indifesi, perché la cultura polacca, diceva, «è sempre stata il luogo del discorso sociale, politico, civile, morale»: fra Munk, Zanussi, il gigante Kieslowski, Wajda è quello più nazionalpopolare, che si prende la responsabilità del Tempo.
In finale di una carriera fatta di 56 titoli, illuminata da lampi di lirismo, con una vita popolata da 4 mogli e una figlia, ebbe giusti riconoscimenti e salì in smoking le scale dei festival: l’Oscar onorario nel 2000, Leone alla carriera nel ’98, Orso a Berlino nel 2006, la vittoria al Festival di Mosca nel ‘75, con gran valore di riscatto: cinque suoi titoli hanno avuto la nomination come film straniero, aggettivo che davvero poco gli si addice.