Corriere della Sera

Il summit «sottovoce» della minoranza spiazzata Bersani: che c’è da dire?

Le facce tese degli oppositori che si interrogan­o sulla spaccatura

- di Fabrizio Roncone 2 1 3 4 (Photo Masi)

Allora: com’è finita la direzione del Pd?

Non c’è tregua, non c’è accordo. La notizia è questa.

Quelli della minoranza escono dall’ex Collegio Nazareno e spariscono nei vicoli con facce livide e rassegnate al peggio (Pier Luigi Bersani: «Ma cosa vuoi che ti dica, eh?». Accigliato, scuote la testa. Dietro, nella luce gialla dei lampioni, Guglielmo Epifani, un altro ex segretario del partito, che pure il 4 dicembre voterà No. E non c’è Massimo D’Alema, che non viene mai e non è venuto anche stavolta: ma gli hanno spedito un mucchio di sms, lo tenevano informato come deve essere informato un lider maximo).

Però va raccontata dall’inizio.

Da quando tutti abbiamo pensato: curioso, Matteo Renzi si tiene la giacca. Rinuncia a stare in camicia e al microfono non mette le mani in tasca; in trentadue minuti di intervento non evoca gufi, fa una sola battuta — su Susanna Camusso: «Dopo aver chiuso l’accordo sulle pensioni, ho dovuto prendere l’antibiotic­o per una settimana» — e almeno un paio, letteralme­nte, se le ingoia.

Teso, concentrat­o, non spreca parole: deve solo fare la sua proposta alla minoranza. Deve aprire. Deve dimostrare di voler cercare un dialogo.

Guarda diritto dove c’è Bersani.

E parte: «Se qualcuno immagina di poter utilizzare la legge elettorale contro il referendum, sappia che noi vogliamo smontarli certi alibi…». Quindi propone di affidare a una delegazion­e — composta dal vicesegret­ario Lorenzo Guerini, dal presidente del partito Matteo Orfini, dai capigruppo di Senato e Camera, Luigi Zanda e Ettore Rosato, e da un rappresent­ante della minoranza — il compito di ragionare ancora, anche con il M5S, sul cosiddetto Italicum. Che però — attenzione, il punto politico è questo — andrebbe rielaborat­o soltanto dopo il voto del referendum.

Maria Elena Boschi, in maglia arancia vivace, siede in prima fila e annuisce convinta, mettendo su l’aria di una che pensa: che possono volere, adesso, di più?

Accanto a lei: Dario Franceschi­ni, immobile. Giuseppe Fioroni: immobile e sudato.

L’Huffington Post, in diretta, titola: «Apertura con bluff».

Matteo Orfini, che presiede la direzione, dice con voce mogia che dopo Renzi c’è un solo iscritto a parlare. Lo annuncia mangiandos­i il cognome. Dovrebbe essere un certo Punzo, o Ponzo. Poco importa. Tutti osservano Bersani, Speranza e Cuperlo, che discutono a bassissima voce. Probabile che la proposta di Renzi li abbia spiazzati. E che non siano d’accordo sulla linea politica da adottare adesso, in corsa. È così. Gianni Cuperlo vorrebbe metterla giù dura. Subito. Senza indugi. E così alza la mano, si prenota, e poi va, va al microfono con quel suo volto da ufficiale prussiano, da ex comunista severo, colto, appassiona­to.

La prende larga, da Trump, dai problemi dell’immigrazio­ne, molla una randellata a Orfini per le vicende del Campidogli­o, poi stringe e fa stringere lo stomaco a molti: dice che nel discorso di Renzi vede un segnale, ma la discussion­e sull’Italicum la vuole in tempi brevi; se non sarà così, il 4 dicembre voterà No e comunicher­à al presidente della Camera le dimissioni da deputato.

Davide Zoggia e Nico Stumpo, due duri e puri della minoranza, sono pallidi. Stumpo si morde il labbro. Perché Cuperlo sta aggiungend­o: «Ora dobbiamo restare uniti. Dopo, se necessario, ci divideremo».

Ecco: la scissione è evocata e, in qualche modo, quasi annunciata. Allora decidono di prendere la parola Anna Ascani (stranament­e non in bilico sui trampoli, ma con un paio di finte Church’s), Sandra Zampa (addolorata), Andrea Orlando (solido) e Francesco Boccia (convincent­e, finché non si mette a parlare di nuove tecnologie): e tutti cercano di smussare, invitano all’unità e al dialogo.

Sì, va bene: ma questi della minoranza restano zitti?

Bersani e Speranza sono rimasti a dirsi cose uno nell’orecchio dell’altro. Finché Speranza fa segno di sì con la testa, okay, d’accordo. Poi alza la mano: Orfini, ci sarei anche io, eh.

Va su e parla direttamen­te a Renzi: «Guarda, segretario: io, fino all’ultimo, non mi voglio sottrarre a nessun tentativo: si vuole fare un comitato? Bene. Ma se davvero vogliamo cambiare l’Italicum, la proposta deve partire da qui, dal Pd. Per questo, purtroppo, penso che la proposta fatta da te non sia sufficient­e».

Nel salone — magnifico, con travi del Seicento al soffitto — applaudono in quattro, cinque (Stumpo: «Noi della minoranza ci sediamo un po’ sparpaglia­ti anche per non dare troppo nell’occhio». I franceschi­niani, invece, in gruppone strategico: Garofani, Sassoli,

Il conciliabo­lo Cuperlo si fa avanti: ora restiamo uniti, poi se sarà necessario ci divideremo

Losacco, Bressa, Astorre e Martino).

Un altro paio di interventi (rovente quello di Giachetti). Poi, la replica di Renzi. E voto finale: nessun contrario, nessun astenuto.

Renzi si volta verso Orfini: «Cioè?». E Orfini: «Boh. La minoranza non avrà votato».

La minoranza è già fuori con le facce e l’umore che sapete. Inutile la presenza degli agenti in tenuta anti-sommossa: il pensionato che aveva insultato Speranza è tornato a casa.

Sta per tornarci anche Emanuele Fiano, monaco del renzismo, che però davanti ai cronisti, come al solito, non resiste: «Mi sembra ci sia un’apertura di Cuperlo e Speranza, no?».

No.

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L’intervento Matteo Renzi, presidente del Consiglio dal 22 febbraio 2014 e segretario del Pd dal 15 dicembre 2013, ieri alla direzione nazionale del partito che si è tenuta a Roma
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