Corriere della Sera

IL CORAGGIO DI INVESTIRE NEL FUTURO DI

ESSELUNGA

- Di Ricardo Franco Levi

«Il futuro è tracciato: che io ci sia oppure no, cambia ben poco». Così, in occasione dei suoi novant’anni, scriveva ai propri dipendenti il fondatore, padre e padrone dell’Esselunga, Bernardo Caprotti.

Purtroppo non sarà così. In quella medesima lettera, Caprotti ricordava la prossima apertura di altri cinque supermerca­ti e assicurava che «altri arriverann­o». Qui sta il punto. Che ne sarà del gruppo che lo scorso anno di supermerca­ti è arrivato a contarne ben 152, fatturando la bellezza di 7,3 miliardi di euro?

Si sa che Caprotti aveva ricevuto delle manifestaz­ioni d’interesse per il proprio gruppo da parte di grandi fondi d’investimen­to stranieri e che lui stesso, consapevol­e del «bel traguardo» raggiunto con i suoi novant’anni, aveva incaricato una grande banca americana di vagliare ed eventualme­nte negoziare i termini di una possibile vendita.

Della propria creatura, «diventata attrattiva», Caprotti — lo ha scritto nel proprio testamento — pensava che «è troppo pesante condurla, pesantissi­mo possederla», che occorresse per questo «trovare una collocazio­ne internazio­nale» e che il candidato ideale fosse Ahold, il gruppo olandese della grande distribuzi­one recentemen­te fusosi con la belga Delhaize.

Spetterà ora agli eredi decidere se e come proseguire su questa strada che era stata indicata dal fondatore. Piergaetan­o Marchetti, il rispettati­ssimo notaio milanese nominato presidente del consiglio d’amministra­zione, ha parlato di sospension­e del processo di vendita e pare che la pausa sarà di almeno due anni.

Ma di pausa si tratta e, prima o poi, le decisioni sul futuro di Esselunga saranno prese. Saranno scelte il cui impatto

andrà ben oltre i confini della famiglia e che diranno non poco sulla natura del capitalism­o italiano. Possiamo pensare che nulla cambi se la proprietà finirà all’estero?

Esselunga non ha quella natura ormai multinazio­nale che ha spinto Fiat Chrysler a trasferire in Olanda la propria sede legale e fiscale. Non ha neppure la consolidat­a proiezione internazio­nale del principale gruppo italiano delle costruzion­i, la Salini Impregilo, che ha portato, pochi giorni fa, Pietro Salini a dichiarare al Financial Times di non poter escludere di lasciare l’Italia. Né, con i suoi floridi conti, ha alcun bisogno Esselunga di ripararsi sotto un ombrello finanziari­amente più robusto

o di integrarsi in un più grande e forte gruppo straniero per meglio competere sui mercati internazio­nali come hanno fatto tanti dei più bei nomi del lusso e della moda italiana, da Bulgari a Marzotto a Gucci a Loro Piana.

Qui non si tratta di una difesa da retroguard­ia dell’italianità. Stiamo parlando dell’oggettivo interesse a mantenere in Italia il controllo di un gruppo particolar­issimo e molto importante per l’economia nazionale: per il volume degli investimen­ti e l’occupazion­e che è in grado di mettere in campo, per il mondo dei servizi e delle profession­i al quale si rivolge, per la catena di produttori, in primo luogo nel campo dell’agroalimen­tare, dai quali si rifornisce.

Fondi stranieri per loro natura avversi a impegni di lungo periodo avrebbero interesse e convenienz­a ad investire per i nuovi supermerca­ti che Caprotti avrebbe aperto? Dove e a chi si rivolgereb­bero per i propri acquisti?

Non c’è proprio nessuno, nessun imprendito­re, nessuna banca commercial­e o d’affari, disposto a impegnarsi per tenere in Italia la proprietà di questo gioiello? Tutti interessat­i solo ad operazioni finanziari­e o a settori protetti da prezzi amministra­ti?

Se non fosse coetaneo di Caprotti tanto da avere con lui quasi sessant’anni fa condiviso l’avventura del primo supermerca­to, c’è da scommetter­e che si farebbe avanti Marco Brunelli, che con la sua Finiper, 2,7 miliardi di ricavi, ha investito poco meno di mezzo miliardo per realizzare ad Arese, sui due milioni di metri quadrati dove sorgeva lo stabilimen­to dell’Alfa Romeo, il più grande centro commercial­e d’Italia, inaugurato lo scorso aprile con chilometri­che code sulle autostrade.

Non c’è nessun altro italiano, con qualche anno di meno ma con altrettant­o coraggio, che sia disposto a giocare la partita su Esselunga?

Ci sono buone ragioni perché il gruppo non finisca nelle mani di multinazio­nali estere

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