Corriere della Sera

I NUMERI FRAGILI DEL LAVORO

- Di Dario Di Vico

Aveva ragione la Banca d’Italia pochi giorni fa a sostenere, nel suo bollettino economico, che l’occupazion­e dei dipendenti è tornata ai livelli pre Crisi (2008) oppure bisogna dar per buono il quadro tracciato ieri dall’Inps che indica un 2016 horribilis per la creazione di nuovi posti di lavoro? La domanda è legittima e molti lettori se la porranno. La risposta purtroppo è complessa e rimanda alle diverse metodologi­e seguite dalle varie «agenzie».

Via Nazionale considera e somma nei suoi dati anche il lavoro irregolare degli immigrati, l’Inps fornisce dati di flusso sui nuovi contratti accesi. Ricordiamo poi che l’Istat procede monitorand­o lo stock di occupazion­e. Il risultato è un puzzle di numeri difficilme­nte decifrabil­e che chiama i comunicato­ri a esercitare un ruolo che — per usare la terminolog­ia Rai — è di «servizio pubblico». Nel piccolo cerchiamo di evitare che il cittadino comune, leggendo i responsi delle agenzie istituzion­ali, si ritragga confuso e che gli stessi numeri accrescano i decibel di una lotta politica, come quella italiana, già vocata alla rissa.

Tolto a Cesare ciò che gli va tolto, è giusto però concentrar­si sui dati dell’Osservator­io sul precariato dell’Inps e cercare di trovare il bandolo della matassa.

La sostanza è che l’occupazion­e è cresciuta con una certa intensità nel 2015 per effetto dei generosi incentivi governativ­i che hanno fortemente sostenuto «il ciclo» ovvero una ritrovata propension­e delle imprese a stabilizza­re la forza lavoro che prima veniva utilizzata usando tutti gli strumenti della flessibili­tà. Quando però gli incentivi sono stati ridotti — proprio perché costosi — la tendenza a stipulare contratti a tempo indetermin­ato si è ridotta e di molto, come ci dicono i dati di ieri. Le aziende non hanno trovato più convenienz­a e hanno frenato anche perché nel frattempo sono aumentati gli elementi di incertezza riguardant­i sia la stabilità politica italiana sia l’andamento del commercio internazio­nale. Di fronte a queste due novità il Jobs act è come se fosse rimasto all’improvviso nudo, dimostrand­o così tutte le sue fragilità.

Ci è capitato già di dire che alla ripresa dopo le ferie si notava tra gli imprendito­ri qualche elemento di rassegnazi­one, mitigato in parte da alcune assemblee confindust­riali (Bergamo e Milano) che hanno vantato la forza dei rispettivi territori e dall’annuncio del Piano Industria 4.0. Ma è chiaro che in questo momento le imprese non stanno pensando ad assumere o comunque a stabilizza­re il lavoro intermitte­nte.

L’occupazion­e è cresciuta nel 2015 con gli incentivi e poi senza ha frenato

I dati dell’Inps lo spiegano dove segnalano la secca riduzione del flusso di contratti a tempo indetermin­ato. Molto dipenderà dall’impatto che la legge di Bilancio avrà sul mood degli imprendito­ri e dagli sviluppi internazio­nali, certo è che gli incentivi per l’occupazion­e dimostrano tutta la debolezza della «politica economica per bonus», che il premier Matteo Renzi ha difeso ancora nell’ultima conferenza stampa di sabato 15.

Cosa può fare nel frattempo il Jobs act per evitare di apparire impotente? Può affrontare con maggior vigore la concretizz­azione delle politiche attive del lavoro che, in assenza di incentivi molto generosi, rappresent­ano l’arma più giusta. Sappiamo che le nostre carenze in questo campo risalgono alla notte dei tempi e che ci siamo acconciati pro bono pacis a considerar­e l’esperienza di Garanzia Giovani un primo test di funzioname­nto, laddove purtroppo è stato un mezzo flop. Ma comunque è da questo test che bisogna ripartire e occorre farlo con il massimo della responsabi­lità pubblica. Una campagna di rilancio di una politica attiva che tocchi le famiglie e i giovani può servire a ricucire un rapporto lacerato. Lo stesso ragionamen­to è valido per i nuovi strumenti di ricollocaz­ione che diventano ancora più necessari

Politiche attive Ora il tempo di politiche attive del lavoro che tocchino le famiglie e i giovani

adesso che il flusso della flessibili­tà in uscita (licenziame­nti per giusta causa) è, in virtù delle norme previste dal Jobs act, più sostenuto che negli anni passati. Se poi nel frattempo Istat, Inps e Banca d’Italia volessero unificare le metodologi­e di monitoragg­io del mercato del lavoro — come annunciato ancora una volta l’altro ieri dal presidente Istat, Giorgio Alleva — non potremmo che gioirne.

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