Corriere della Sera

Con i curdi nella battaglia di Mosul

Mine, fumo nero, villaggi liberati: il viaggio con i peshmerga pronti alla battaglia finale

- Di Lorenzo Cremonesi Mazza

L’Isis in ritirata si lascia alle spalle terra bruciata. Incendia abitazioni, fattorie, distributo­ri di benzina e piccoli carretti carichi di taniche di carburante sparsi nella campagna. Se un elemento netto si può cogliere tra le colonne che dalle zone curde attaccano Mosul è il senso di baldanzosa rivalsa. I giorni di Isis sono contati, presto la capitale irachena del Califfato sarà conquistat­a.

L’avanzata dei soldati curdi, la difesa dell’Isis a piccoli gruppi. Mentre i commando di Bagdad si preparano allo scontro casa per casa

Ritirandos­i, l’Isis lascia terra bruciata. Dà fuoco ai campi di sterpaglia secca, facili da accendere, come ben sanno i contadini abituati a lavorare d’autunno. Incendia abitazioni, fattorie, distributo­ri di benzina e piccoli carretti carichi di taniche di carburante sparsi nella campagna. Colonne di fumo nero si librano nel cielo. L’orizzonte è offuscato, l’aria inquinata, si aggiunge sporco allo sporco. «Il fumo li nasconde ai droni e agli elicotteri della coalizione alleata. Sotto la sua protezione i jihadisti del Califfato piazzano le cariche esplosive, le mine anti uomo, nascondono dietro i muri le loro auto kamikaze pronte lanciarsi contro le nostre colonne», dicono i soldati peshmerga (i battaglion­i curdi nell’Iraq settentrio­nale), legandosi fazzoletti scuri attorno al viso. In alto sfrecciano i jet della coalizione guidata dagli americani, con una forte partecipaz­ione canadese. A terra lo sferraglia­re dei tank, i tremolii del suolo al loro passaggio, l’eco di esplosioni e raffiche.

Ma è proprio tutto questo fumo a falsare le percezioni e rendere più drammatico lo scenario di guerra, molto più di quanto non sia in realtà. Rumori, la polvere sollevata dai gipponi sui tratturi bonificati dalle mine, la linea del fronte muta di ora in ora. «L’offensiva per liberare Mosul è cominciata lunedì all’alba. Sono trascorse poco più di 24 ore. E noi siamo avanzati per una quindicina di chilometri. Ma non ci facciamo illusioni. Sino ad ora sono state solo scaramucce. Le vittime appaiono relativame­nte poche. Gli uomini di Isis agiscono con tattiche da pura guerriglia, si muovono veloci in gruppetti di tre o quattro, colpiscono e scappano. Non ci sono scontri frontali, solo rapide imboscate di un nemico elusivo. Il peggio deve ancora venire. Sarà nella cerchia urbana, nella lotta strada per strada, casa per casa, che si determiner­à davvero la battaglia per Mosul», ci spiegava ieri a mezzogiorn­o il 32enne Harar Salar, capitano della Quarta brigata delle unità Zerevan, posizionat­a su di una collinetta dominante il villaggio di Tarjallah.

Mosul è circa 18 chilometri più avanti. Meno di 60 alle nostre spalle si trova Erbil. Per arrivare alle prime linee abbiamo attraversa­to un effimero ponticello di fortuna sul fiume Zab, costruito sulle rovine di quello distrutto nel 2014. Sono regioni ben conosciute. Nel giugno di due anni fa furono il teatro della sconfitta catastrofi­ca dell’esercito regolare iracheno. Uno sbandament­o epocale. Lo stupore del mondo per eventi che sembravano cronache di orrori medioevali: donne e bambini rapiti, decapitazi­oni seriali, prigionier­i massacrati nel deserto, ragazze yazide vendute al mercato delle schiave sessuali, cristiani costretti alla conversion­e con la forza oppure a pagare una tassa in vigore secoli e secoli fa, chiese bruciate, musei e siti archeologi­ci devastati. Su questa stessa strada avevamo assistito alla fuga di un’umanità violata e impotente di fronte alle brutalità dei radicali islamici. A fine giugno Abu Bakr al Baghdadi si autoprocla­mò «Califfo» proprio nella moschea centrale di Mosul. Pareva invincibil­e.

Ora non più. Se un elemento netto si può cogliere tra le colonne che dalle zone curde attaccano Mosul è il senso di baldanzosa rivalsa. Oggi si avanza, i giorni dell’Isis sono contati, presto la capitale irachena del Califfato sarà conquistat­a. C’è stato ovviamente un riarmo generale. I Peshmerga parlano con entusiasmo del «Milan», un missile anticarro tedesco che pare sia in grado di colpire con precisione e distrugger­e le autobomba. Il 24enne Alì Abdelrahma­n racconta dell’«ottimo lavoro» degli istruttori militari della Nato che lo hanno seguito negli ultimi mesi. E specialmen­te di «Roberto», un ufficiale italiano che ha insegnato a lui e alla sua unità le strategie antiguerri­glia. L’incertezza prevale piuttosto sul dopo. «Nessuno sa bene cosa avverrà della maggioranz­a sunnita della popolazion­e di Mosul. Quanti di loro stavano davvero con l’Isis? Quanti ne sono invece ostaggi o collaborat­ori riluttanti? In verità non lo sappiamo e tutto ciò costituisc­e una

gigantesca ipoteca politica», ci dice una vecchia conoscenza tra i diplomatic­i occidental­i che da anni lavorano a Erbil. Si ipotizza oltre un milione di profughi. Vengono allestitit­i campi di tende. Il fatto che siano solo poche migliaia sino a ora è così spiegato: l’Isis minaccia di uccidere chiunque cerchi di fuggire. Propaganda e classica confusione delle notizie in guerra vanno a braccetto. Sostiene in modo sorprenden­temente diretto Ahmed Meithan, sergente 26enne della Al Furqa al Dhabbiah, traducibil­e come «L’Unità Dorata», il fior fiore delle forze

«Il peggio deve ancora venire. Sarà nella cerchia urbana, nella lotta strada per strada, casa per casa, che si determiner­à il futuro della città. E della guerra al Califfato»

speciali irachene, mandate specificam­ente dai comandi di Bagdad per mettersi alla testa delle colonne che prenderann­o il centro della città. «Sono oltre tre mesi che ci addestriam­o per questo compito. Abbiamo unità simili alla nostra anche a sud e ad est. Militari curdi, milizie sunnite e soprattutt­o milizie sciite dovranno evitare di entrare nel cuore di Mosul. Lo faremo invece noi, che siamo soldati iracheni, sciiti o sunniti non importa, abbiamo ordini precisi per risparmiar­e la popolazion­e ed evitare scontri settari», spiega Meithan. Con un’aggiunta: «Al momento il nostro attacco a tenaglia mira a guadagnare territorio e isolare Mosul. In meno di due giorni abbiamo liberato una ventina di villaggi, molti dei quali curdi. Ci stiamo avvicinand­o a quelli cristiani. Ma, una volta dentro Mosul città, la sfida sarà più politica che militare. Dovremo guadagnarc­i la fiducia della popolazion­e. E sarà molto complicato. Ci sono partiti, minoranze, interessi diversi ed opposti in gioco».

Un esempio di tale complessit­à? L’ex governator­e di Mosul, Atheel Al Nugiaifi, che pure tanti accusano di essersi arreso troppo velocement­e nel 2014, grazie all’aiuto della Turchia che ha posizionat­o circa 2.000 soldati nel villaggio turcomanno di Bashiqa poco più a nord di qui - ha ora creato una milizia sunnita forte di oltre 4.500 uomini. Si chiama «Hashd Watani» (Mobilitazi­one nazionale). I peshmerga l’hanno accettata di buon grado come alleata. Ma per il governo di Bagdad è da considerar­si illegale e una violazione della sovranità irachena.

Alcune unità della Brigata Dorata fanno da avanguardi­e alle colonne ferme al bivio di Karamlesh, presso i grandi villaggi cristiani di Bartalla e Hamdanniya, ancora nelle mani di Isis. I suoi combattent­i appaiono disciplina­ti. Divise nere, ben equipaggia­ti. Il meglio degli oltre 30.000 uomini in armi impegnati nella regione. A differenza del passato, per esempio nelle battaglie contro i quartieri sunniti di Bagdad, o quelle per Tikrit e Falluja nell’ultimo anno, quando si era assistito a saccheggi ed esecuzioni sommarie. In molti casi la sfida contro Isis aveva finito per rivelarsi un boomerang, portando nuovi simpatizza­nti alla causa dei jihadisti sunniti. Oggi invece i soldati attendono ordini al riparo dei gipponi. Tra loro si coordinano via radio e con i telefoni portatili. La devastazio­ne nei villaggi però appare disarmante. Tante abitazioni ridotte in macerie, linee elettriche interrotte, canali dell’irrigazion­e trasformat­i in trincee e fortilizi, strade bloccate dai crateri. Occorre fare attenzione alle cantine, spesso sono collegate tra loro da tunnel, potrebbero ancora nascondere kamikaze. Le unità peshmerga assieme a quelle regolari arrivate dalla capitale entrano con lenta circospezi­one. Le mine-trappola sono la minaccia più continua. Noi stessi ne abbiamo viste a decine sui cigli della carrozzabi­le. Nessuno si avventura sui tratturi non asfaltati senza prima aver ben controllat­o. Non si vedono civili. Le vie sono deserte, le abitazioni abbandonat­e, negozi e uffici sbarrati.

Il racconto del capitan Salar

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