I CONFLITTI DELLE ÉLITE CHE FANNO MALE ALL’ITALIA
Scenario La legge elettorale è coraggiosa: non c’è nulla di antidemocratico in un sistema in cui chi vince il ballottaggio ha la possibilità di governare. Il quadro si fa più oscuro se guardiamo ai comportamenti delle forze politiche Le divisioni nel Pd r
Scrivevo in un precedente articolo che — se guardiamo all’obiettivo di fondo — la riforma costituzionale e la legge elettorale sono, nel loro insieme, un tentativo di accrescere l’efficacia decisionale del governo. Rimuovendo, la prima, i principali ingombri costituzionali che oggi l’ostacolano: bicameralismo paritetico indifferenziato e competenze legislative concorrenti delle Regioni. E favorendo, la seconda, la prevalenza di un partito con un programma coerente, che non debba essere continuamente «contrattato» con forze politiche di diverso orientamento.
Molte delle critiche che vengono rivolte alla riforma costituzionale riguardano punti minori o che potranno essere aggiustati nella fase di adattamento di cui ogni grande riforma ha bisogno. E, se l’obiettivo era il rafforzamento del governo, essa poteva essere più coraggiosa, adottando la sfiducia costruttiva e il potere di scioglimento del Parlamento in capo al premier, presenti nelle Costituzioni tedesca e spagnola. Ma se già una riforma che non amplia i poteri del premier ha suscitato un tale putiferio, sino a paventare minacce autoritarie, forse è stato politicamente opportuno escludere istituti che l’esecrata riforma costituzionale di Berlusconi, poi bocciata al referendum del 2006, aveva tentato di introdurre. Non vedo quindi ragioni per dire No alla riforma attuale se non il fatto che un referendum è l’occasione ideale per coalizzare forze eterogenee, che mai potrebbero mettersi d’accordo su una riforma alternativa e il cui unico scopo è di indebolire o far cadere il governo. Accada poi ciò che può accadere.
Coraggiosa è invece, sino ai confini dell’azzardo, la legge elettorale. Il suo proposito è condivisibile per chi non demonizza il sistema maggioritario e la stessa idea di democrazia competitiva, e condivide la critica alla scarsa efficacia decisionale dei governi di coalizione. Dico subito, per non aggiungermi al coro di chi paventa minacce alla democrazia, che non vedo nulla di antidemocratico in un sistema elettorale in cui chi vince il ballottaggio abbia la possibilità di governare: le seconde preferenze, quelle rivelate dal ballottaggio, valgono quanto le prime. Il problema che mi pongo è solo quello che la lista vincente abbia un programma chiaro, dichiarato agli elettori, e il più possibile al riparo da contestazioni interne. Dunque una forza sufficiente a portare avanti il suo programma per un’intera legislatura: la crisi in cui si trova oggi il nostro Paese richiede questo. Se è così, le obiezioni che mi hanno fatto parlare di riforma coraggiosa, ma al limite dell’azzardo, sono due. Il premio di maggioranza al vincitore del ballottaggio non è, non può e non deve essere eccessivo: nell’Italicum il vincitore disporrebbe di una maggioranza di 340 seggi. Più che sufficienti se il partito (la lista, più propriamente) è compatto. Ma i singoli partiti, se pur più coerenti di coalizioni composte da partiti diversi, non sono monolitici: ospitano orientamenti diversi che vanno condotti ad unità da un’opera paziente di mediazione. Che cosa accade se quest’opera non ha successo? E se il dissenso
induce un voto contrario al governo di un gruppo di deputati della maggioranza superiore alla soglia del premio? Che non si tratti di un caso di scuola lo si vede dalle vicende del Pd o dalla spaccatura che minaccia il Psoe spagnolo. E il premier, come ho appena sottolineato, non può usare i potenti mezzi costituzionali di compattamento della maggioranza di cui dispongono il cancelliere tedesco o il premier spagnolo. Se poi guardiamo ai comportamenti effettivi delle forze politiche in campo il quadro si fa più oscuro. Il Pd è minacciato da divisioni interne che possono compromettere il successo referendario. Il centrodestra è spaccato in tre diversi partiti, due di natura populista e uno il cui programma è ancora incerto: ma tutti e tre si sono dichiarati per il No al referendum e per una revisione della legge elettorale. Così pure i 5 Stelle, anche se la legge elettorale con ballottaggio e l’esperienza delle recenti elezioni comunali li favorirebbero: per ora preferiscono non rischiare di vincere e ritirarsi sull’Aventino di una legge proporzionale, sicuri di avvantaggiarsi in futuro della rovina di una inevitabile, raffazzonata coalizione di governo. Manca in tutti la percezione di quanto sia grave la situazione dell’Italia e dell’intero disegno dell’Unione. Un’impressione amara, per concludere sull’attivismo istituzionale del governo: «governare gli italiani non è difficile, è inutile», pare abbiano detto sia Giolitti che Mussolini. Non mi meraviglia il successo dei populisti: quando le cose vanno male avviene ovunque così e un’ampia parte degli elettori cede alle lusinghe di chi propone rimedi drastici e illusori. Mi stupiscono i conflitti delle élite politiche, il loro «guelfi-ghibellinismo», l’incapacità di unirsi di fronte a gravi emergenze. E se è così anche le riforme migliori rischiano di fallire. In un saggio sulla Zeit del 13 ottobre (Se la Ue affonda, nessuno piangerà) c’è una figura dell’Italia che si stacca dall’Europa e fluttua nel Mediterraneo: l’ha scritto Wolfgang Streeck uno dei più noti sociologi tedeschi e dei più acuti osservatori di questioni europee. Streeck, con buoni argomenti, dà quest’esito come inevitabile: spero ancora che non sia così.
Populismo Quando le cose non funzionano succede ovunque così; molti elettori cedono alle lusinghe di chi propone rimedi drastici e illusori