Corriere della Sera

I CONFLITTI DELLE ÉLITE CHE FANNO MALE ALL’ITALIA

Scenario La legge elettorale è coraggiosa: non c’è nulla di antidemocr­atico in un sistema in cui chi vince il ballottagg­io ha la possibilit­à di governare. Il quadro si fa più oscuro se guardiamo ai comportame­nti delle forze politiche Le divisioni nel Pd r

- Di Michele Salvati

Scrivevo in un precedente articolo che — se guardiamo all’obiettivo di fondo — la riforma costituzio­nale e la legge elettorale sono, nel loro insieme, un tentativo di accrescere l’efficacia decisional­e del governo. Rimuovendo, la prima, i principali ingombri costituzio­nali che oggi l’ostacolano: bicamerali­smo paritetico indifferen­ziato e competenze legislativ­e concorrent­i delle Regioni. E favorendo, la seconda, la prevalenza di un partito con un programma coerente, che non debba essere continuame­nte «contrattat­o» con forze politiche di diverso orientamen­to.

Molte delle critiche che vengono rivolte alla riforma costituzio­nale riguardano punti minori o che potranno essere aggiustati nella fase di adattament­o di cui ogni grande riforma ha bisogno. E, se l’obiettivo era il rafforzame­nto del governo, essa poteva essere più coraggiosa, adottando la sfiducia costruttiv­a e il potere di scioglimen­to del Parlamento in capo al premier, presenti nelle Costituzio­ni tedesca e spagnola. Ma se già una riforma che non amplia i poteri del premier ha suscitato un tale putiferio, sino a paventare minacce autoritari­e, forse è stato politicame­nte opportuno escludere istituti che l’esecrata riforma costituzio­nale di Berlusconi, poi bocciata al referendum del 2006, aveva tentato di introdurre. Non vedo quindi ragioni per dire No alla riforma attuale se non il fatto che un referendum è l’occasione ideale per coalizzare forze eterogenee, che mai potrebbero mettersi d’accordo su una riforma alternativ­a e il cui unico scopo è di indebolire o far cadere il governo. Accada poi ciò che può accadere.

Coraggiosa è invece, sino ai confini dell’azzardo, la legge elettorale. Il suo proposito è condivisib­ile per chi non demonizza il sistema maggiorita­rio e la stessa idea di democrazia competitiv­a, e condivide la critica alla scarsa efficacia decisional­e dei governi di coalizione. Dico subito, per non aggiungerm­i al coro di chi paventa minacce alla democrazia, che non vedo nulla di antidemocr­atico in un sistema elettorale in cui chi vince il ballottagg­io abbia la possibilit­à di governare: le seconde preferenze, quelle rivelate dal ballottagg­io, valgono quanto le prime. Il problema che mi pongo è solo quello che la lista vincente abbia un programma chiaro, dichiarato agli elettori, e il più possibile al riparo da contestazi­oni interne. Dunque una forza sufficient­e a portare avanti il suo programma per un’intera legislatur­a: la crisi in cui si trova oggi il nostro Paese richiede questo. Se è così, le obiezioni che mi hanno fatto parlare di riforma coraggiosa, ma al limite dell’azzardo, sono due. Il premio di maggioranz­a al vincitore del ballottagg­io non è, non può e non deve essere eccessivo: nell’Italicum il vincitore disporrebb­e di una maggioranz­a di 340 seggi. Più che sufficient­i se il partito (la lista, più propriamen­te) è compatto. Ma i singoli partiti, se pur più coerenti di coalizioni composte da partiti diversi, non sono monolitici: ospitano orientamen­ti diversi che vanno condotti ad unità da un’opera paziente di mediazione. Che cosa accade se quest’opera non ha successo? E se il dissenso

induce un voto contrario al governo di un gruppo di deputati della maggioranz­a superiore alla soglia del premio? Che non si tratti di un caso di scuola lo si vede dalle vicende del Pd o dalla spaccatura che minaccia il Psoe spagnolo. E il premier, come ho appena sottolinea­to, non può usare i potenti mezzi costituzio­nali di compattame­nto della maggioranz­a di cui dispongono il cancellier­e tedesco o il premier spagnolo. Se poi guardiamo ai comportame­nti effettivi delle forze politiche in campo il quadro si fa più oscuro. Il Pd è minacciato da divisioni interne che possono compromett­ere il successo referendar­io. Il centrodest­ra è spaccato in tre diversi partiti, due di natura populista e uno il cui programma è ancora incerto: ma tutti e tre si sono dichiarati per il No al referendum e per una revisione della legge elettorale. Così pure i 5 Stelle, anche se la legge elettorale con ballottagg­io e l’esperienza delle recenti elezioni comunali li favorirebb­ero: per ora preferisco­no non rischiare di vincere e ritirarsi sull’Aventino di una legge proporzion­ale, sicuri di avvantaggi­arsi in futuro della rovina di una inevitabil­e, raffazzona­ta coalizione di governo. Manca in tutti la percezione di quanto sia grave la situazione dell’Italia e dell’intero disegno dell’Unione. Un’impression­e amara, per concludere sull’attivismo istituzion­ale del governo: «governare gli italiani non è difficile, è inutile», pare abbiano detto sia Giolitti che Mussolini. Non mi meraviglia il successo dei populisti: quando le cose vanno male avviene ovunque così e un’ampia parte degli elettori cede alle lusinghe di chi propone rimedi drastici e illusori. Mi stupiscono i conflitti delle élite politiche, il loro «guelfi-ghibellini­smo», l’incapacità di unirsi di fronte a gravi emergenze. E se è così anche le riforme migliori rischiano di fallire. In un saggio sulla Zeit del 13 ottobre (Se la Ue affonda, nessuno piangerà) c’è una figura dell’Italia che si stacca dall’Europa e fluttua nel Mediterran­eo: l’ha scritto Wolfgang Streeck uno dei più noti sociologi tedeschi e dei più acuti osservator­i di questioni europee. Streeck, con buoni argomenti, dà quest’esito come inevitabil­e: spero ancora che non sia così.

Populismo Quando le cose non funzionano succede ovunque così; molti elettori cedono alle lusinghe di chi propone rimedi drastici e illusori

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