Lo sguardo profondo degli umiliati e offesi
Mancini mi fa sentire osservato. Ma non dallo sguardo allucinato e infestato di fantasmi psichici che mostra negli autoritratti. Sono i suoi ragazzi, le sue ragazzine a scrutarmi dal fondo dei loro occhi senza fondo. E lo fanno non come specifico soggetto del singolo dipinto. Se mi chiamano in gioco è una questione corale. Ognuno invoca a sé la generalità degli altri e, tutti insieme, si affollano intorno al visitatore come una popolazione composta, principalmente, di occhi (occhi in cui non si distingue mai l’iride dalla pupilla). Una piccola folla adolescenziale in fondo persino eterogenea: il saltimbanco o il suonatore ambulante si mischiano allo scolaro che compita su di un abbecedario smembrato. Oppure è il ragazzo vestito secondo i dettami della moda infantile borghese a mescolarsi con il venditore di giornali, lo scugnizzo, la piccola fioraia, l’ammalatina dal viso smunto. Insieme, come traendo forza dalla comune debolezza, i modelli di Mancini ti si accalcano intorno. Con le loro peculiarità e la loro inconfondibile somiglianza. Sono acerbi, tutti. Smorti e rassegnati troppo presto, minati da un bacillo che appartiene a loro quanto a chi li creò. Una piccola calca di orfani predestinati al collegio oppure all’Albergo dei Poveri o al terrore diaccio dell’ospedale. Usciti dalle cornici dei quadri preposti a trattenerli invadono il mio, il nostro campo visivo. Non ci strattoneranno. Sono dei miti in senso dostoevskijano. Sono vinti sul nascere, umiliati e offesi alla maniera di Fedor Michajlovic, che li avrebbe amati perdutamente riponendo in loro la speranza del mondo. Laddove Mancini, ha deposto nei loro occhi color carbone la propria disperazione. La sua, la loro, la nostra.