Redgrave, quando un’interpretazione riesce a illuminare tutto lo schermo
Ci sono dei film che sembrano fatti apposta per applaudire un attore o un’attrice. Non perché manchino altre qualità, ma perché la forza di un’interpretazione riesce a illuminare tutto il film e a darne da solo una giustificazione alla visione. Mi è successo con The Secret Scripture (foto) di Jim Sheridan dove Vanessa Redgrave si impone sullo schermo con tutta la sua bravura. Interpreta Rose una donna che ha passato cinquant’anni in manicomio accusata prima di essere «ninfomane» poi di aver ucciso il figlio che avrebbe avuto da un prete: uno psichiatra (Eric Bana) scoprirà la verità, mentre sullo schermo il presente si mescola al passato dell’Irlanda durante l’ultima guerra, quando l’odio verso gli inglesi si mescolava alla cappa repressiva del Cattolicesimo più bigotto. Rose giovane è interpretata (convincentemente) da Rooney Mara ma è la Redgrave a rubare la scena, quando riesce a trasmettere anni di sofferenze e umiliazioni attraverso l’appannamento dello sguardo, il tremore delle mani, un’esitazione della voce. Che davvero ci auguriamo il pubblico italiano possa ascoltare anche (solo, sarebbe sperare troppo) nella sua intonazione originale. Un altro film dove il peso degli attori si fa molto sentire è Manchester by the Sea ma qui l’ottima prova di Casey Affleck (nei panni di un uomo che sembra aver rinunciato alla vita dopo la tragedia familiare di cui si sente responsabile) e Lucas Hedges (il nipote adolescente di cui deve prendersi cura per la morte del padre) è molto debitrice anche della sceneggiatura e della regia di Kenneth Lonergan. Da una parte ci sono la giustezza dei dialoghi e la sapiente scoperta di cosa pesa sulla spalle del protagonista: la morte delle figlie, il divorzio della moglie, l’«esilio» a Boston con un lavoro che assomiglia a una punizione e poi la morte del fratello che lo obbliga a tornare a Manchester by the Sea per confrontarsi nuovamente col passato, mentre il presente gli rovescia addosso altre pene e altri problemi. Dall’altra ci sono la capacità degli attori di essere molto credibili in questa specie di cronaca comportamentale dove ogni enfasi melodrammatica è negata o cancellata e una regia che sa sfruttare questa apparente «povertà» di risorse narrative per far crescere la tensione e l’emozione. Arrivando così a coinvolgere lo spettatore nel ritratto di quel mondo provinciale che il cinema mainstream di solito dimentica.