La maledizione è finita I Cubs hanno riscritto il romanzo del baseball
La palla battuta da Michael Martinez non gli era ancora arrivata nel guanto che Kris Bryant, il fenomenale terza base dei Cubs, già sorrideva. E sorridendo ha completato il lavoro: lanciare in prima base al suo migliore amico, Anthony Rizzo, il ragazzo della Florida nazionale azzurro grazie alle origini siciliane; eliminare Martinez; chiudere i conti e accendere un party che non finirà mai. A Wrigleyville, adesso, giovani e vecchi, i tifosi dei bleachers popolari e quelli da tribuna vip come Bill Murray e Eddie Vedder (superbo aedo rock dei suoi idoli), le antiche glorie che non ce l’hanno mai fatta e i nuovi giovani eroi che nessuno più dimenticherà, possono finalmente abbracciarsi e dirlo forte: dopo 108 anni — la più lunga astinenza nella storia dello sport Usa — noi, Chicago Cubs, abbiamo rivinto le World Series.
Lo hanno fatto battendo i Cleveland Indians nel modo più sofferto, puro stile Cubs, solo che stavolta dal cornicione sono caduti gli altri: 8-7 al decimo inning di gara 7, dopo essere stati sotto nella serie 3-1, in trasferta, davanti a LeBron James che tifava per il bis cittadino dopo il suo titolo Nba coi Cavs a giugno. A ragione, la partita, che nel finale è stata brevemente interrotta da una pioggia che ha reso tutto ancora più drammatico e surreale, è stata definita epica, una delle più belle della storia. Un copione da film, si direbbe, non fosse che il baseball reale, per la sua imprevedibilità e la capacità di offrire una chance a tutti, è sempre migliore di ogni rappresentazione.
L’ultima volta che i Cubs vinsero c’era Theodore Roosevelt presidente e la finale non si poteva vedere sull’Ipad come ha fatto Hillary Clinton in Arizona, che nel 1908 non era ancora uno Stato dell’Unione. Hillary, tifosa nata a Chicago (ma beccata a volte col cappello dei New York Yankees...) ha esultato L’attore Bill Murray con Theo Epstein Rock Eddie Vedder festeggia in campo K.O. LeBron James tifa per gli Indians fiera, e così l’altro chicagoan Barack Obama, che ha invitato i campioni alla Casa Bianca in fretta «prima che me ne vada».
Non è solo il gesto diplomatico di un presidente tifoso dei White Sox, l’altra squadra cittadina. La vittoria dei Cubs — a parte che agli Indians a secco da 68 anni e ai rivali storici dei St. Louis Cardinals — piace un po’ a tutti in America perché loro erano gli adorabili perdenti, la barzelletta nazionale, quelli della sfiga innata e della famosa maledizione sulla testa. Nacque nel 1945 quando tal William Sianis, proprietario della Billy Goat Tavern al quale era stato impedito di entrare allo stadio con la sua maleodorante capra durante le World Series (le ultime fino a queste), aveva tuonato: «I Cubs non vinceranno mai più!». Talmente ridicolo che, crescendo sconfitte e figuracce, a North Chicago hanno finito per crederci, crogiolandosi per generazioni in un perdentismo letterario e senza speranza.
La svolta è arrivata quando Tom Ricketts, il banchiere d’affari proprietario della franchigia dal 2009, ha chiamato a Wrigley Field, lo stadio ancora bello come quando è sorto nel 1914, Theo Epstein. Da enfant prodige, g.m. di soli 30 anni, aveva creato i Boston Red Sox campioni nel 2004 dopo 86 anni e un’altra maledizione sconfitta, quella del Bambino. Ora, da presidente dei Cubs, il guru moderno del baseball (altro che il Billy Beane di «Moneyball»...) ha dipinto un capolavoro persino più bello. Il primo passo è stata una rivoluzione di pensiero che Jon Lester, super lanciatore al terzo titolo in carriera, ha spiegato così: «La maledizione era solo un alibi. Noi abbiamo pensato solo a giocare bene a baseball». Grazie poi al sistema americano, che non ha retrocessioni né ultrà né Zamparini, Epstein ha potuto lavorare con calma pescando i migliori