Corriere della Sera

Il voto e le regole: quel passo indietro che i partiti non vogliono fare

- Di Aldo Cazzullo

Chi ha stabilito che la legge elettorale la debbano scrivere i giudici costituzio­nali? Il Parlamento è sovrano. Se pressoché tutti i partiti si sono espressi a favore del voto anticipato, perché aspettare un mese e mezzo per un’udienza che potrebbe comunque non essere risolutiva? La Consulta non fa le leggi. La Consulta stabilisce quali norme di una legge violano la Costituzio­ne. È possibile che dalla sentenza esca una legge che possa essere applicata. È possibile che questo non accada. Ma la Consulta si muove entro un ambito ristretto. Il legislator­e no.

Prospettiv­a Ogni schieramen­to ha fior di esperti per dipanare le tecnicalit­à, ma serve volontà Obiettivo Bisogna ripristina­re un sistema per ricucire la frattura tra il Palazzo e i cittadini

Non facciamoci illusioni: approvare una nuova legge elettorale in Parlamento è difficile perché ogni partito ha a cuore il proprio interesse particolar­e e non quello generale. Non dappertutt­o è così. Nelle democrazie anglosasso­ni il sistema elettorale è lo stesso da generazion­i. In altri Paesi esiste un tacito patto: non si possono cambiare le regole in base alle convenienz­e del momento. Chi violò questo patto — Mitterrand nel 1986 — pagò caro l’azzardo; e fece subito retromarci­a, ripristina­ndo i collegi uninominal­i con doppio turno che hanno garantito alla Francia stabilità e alternanza. Anche nei sistemi anglosasso­ni ci sono i collegi uninominal­i, ma a turno unico.

Pure l’Italia ha conosciuto una stagione così. Poco più di centomila elettori esprimevan­o il loro parlamenta­re. In questo modo abbiamo avuto appunto la stabilità e l’alternanza per due intere legislatur­e (quasi un miracolo per l’Italia): dal 1996 al 2001 ha governato il centrosini­stra, sia pure con tre premier; dal 2001 al 2006 ha governato il centrodest­ra, con Berlusconi.

Questa legge porta il nome dell’attuale presidente della Repubblica. Un dettaglio non secondario. Sergio Mattarella deve la propria statura anche al fatto di aver dato al Paese norme che non rifletteva­no l’interesse della propria parte, ma la volontà popolare.

Il sistema maggiorita­rio non nasce dal nulla. Nasce dalla stagione dei referendum. Il 18 aprile 1993 andarono alle urne il 77% degli italiani, più ancora di quelli che domenica scorsa hanno bocciato la riforma costituzio­nale, per chiudere l’era del proporzion­ale. Qualcuno ha nostalgia degli anni in cui tracciavam­o una croce sul simbolo di uno dei tanti partiti — che non perdevano e non vincevano mai veramente —, delegando la formazione del governo alle segreterie, provocando instabilit­à e consociati­vismo? Eppure è lì che si rischia di tornare: al proporzion­ale, con un modesto premio di maggioranz­a che in questo momento nessuno dei tre poli è in grado di conquistar­e. Con il retropensi­ero che alla fine Pd e Forza Italia, Renzi e Berlusconi si metteranno d’accordo per tagliare fuori Grillo. Ma non è questo il modo migliore per far crescere ancora i Cinque Stelle? Qualcuno pensa davvero di potersi chiudere mesi nelle segrete della politica alle prese con alambicchi da cui distillare — ammesso che esista — la legge in grado di tenere i grillini lontano dal governo? E ancora: nei sondaggi il Pd vale il 30% o anche meno; Forza Italia il 10 o poco più; con che coraggio si potrebbe parlare di larghe intese?

Neppure il Mattarellu­m dà la garanzia di esprimere una maggioranz­a parlamenta­re; anche se nel 1996 è accaduto, nonostante al Nord i poli fossero tre. Si potrebbe dividere il 25% della quota proporzion­ale in modo da garantire sia un premio di maggioranz­a, sia un diritto di tribuna. Ogni schieramen­to ha fior di esperti in grado di dipanare le tecnicalit­à. Basta che ci sia la volontà politica. Proprio quella che al momento manca.

Il Pd dice in sostanza: noi saremmo favorevoli­ssimi al Mattarellu­m; solo che non lo vuole nessuno. Ma perché non mettere gli altri partiti alla prova? Matteo Salvini ha detto l’altro ieri, nell’intervista a Marco Cremonesi del Corriere, che a lui il Mattarellu­m sta bene: perché non stanarlo? Anche Grillo aveva aperto al Mattarellu­m, per poi diventare proporzion­alista; ora ha ricambiato idea e ha proposto di estendere l’Italicum pure al Senato. Quanto a Berlusconi, in questa fase in cui fatica a riunificar­e il centrodest­ra preferireb­be il proporzion­ale; ma con il Mattarellu­m ha stravinto le elezioni due volte, nel 1994 e nel 2001, e le avrebbe vinte pure nel 2006, quando invece volle una legge rinnegata dal suo stesso autore.

Insomma, i collegi uninominal­i non favoriscon­o a priori uno schieramen­to piuttosto che un altro. Il sospetto è che i partiti non li vogliano perché tolgono potere alle segreterie e lo danno ai cittadini: che conoscono il loro parlamenta­re, lo possono controllar­e per cinque anni, e poi confermarl­o o cambiarlo. Inoltre una campagna elettorale con il Mattarellu­m è una gran fatica: il candidato (che potrebbe essere scelto con le primarie, impossibil­i da imporre per legge, ma in grado di dare al prescelto un vantaggio competitiv­o) deve conquistar­si il collegio. E di questi tempi, in cui la sinistra perde a Livorno, Perugia, Torino e vince a Vicenza, Bari, Catania, collegi sicuri non ce ne sono. Molto più comoda la soluzione dei capilista bloccati, degli eletti designati non dagli elettori ma dai partiti.

Basterebbe una legge di due righe per ripristina­re un sistema che ha funzionato bene e riduce la frattura tra il Palazzo e i cittadini. Riuscirci è difficile, forse difficilis­simo. Ma provarci è necessario. Il primo che lo fa, acquista un credito presso l’opinione pubblica. Per una politica che finora ha accumulato soprattutt­o discredito, non è poco.

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