Corriere della Sera

Mps, le invasioni di campo

Politica Il decreto di intervento per Monte dei Paschi di Siena deve indicare l’orizzonte temporale della ri-privatizza­zione, per evitare il vecchio statalismo. E servono garanzie credibili sulla trasparenz­a delle nomine e la remunerazi­one dei manager

- Di Federico Fubini

Una Monte dei Paschi nazionaliz­zata non sarebbe dei partiti, ma dei contribuen­ti, che oggi non sono più disposti a fare il minimo sconto di fronte agli sprechi.

Il 30 marzo 1935, appare sull’Economist un articolo di Luigi Einaudi che l’autore non si sarebbe mai augurato di vedere ancora attuale 81 anni più tardi. Parlava della Banca Commercial­e Italiana, del Credito Italiano, del Banco di Roma e del Credito Marittimo. «La maggioranz­a delle azioni delle banche è stata trasferita all’Istituto per la Ricostruzi­one Industrial­e e, poiché l’Iri è un organismo pubblico, le quattro banche sono adesso di fatto istituti dello Stato». E poco sotto, Einaudi aggiungeva: «Chiarament­e, l’Iri si è stancato di comprare tutte le azioni che arrivavano sul mercato» (ossia di sottoscriv­ere gli aumenti di capitale).

È appena il caso di ricordare che quanto probabilme­nte accadrà entro fine anno non si vedeva in Italia dai presunti «anni del consenso» del fascismo. È da allora che nel Paese più nessuna banca è stata nazionaliz­zata per garantirne il salvataggi­o, come ci si prepara a fare per il Monte dei Paschi di Siena. Con un’infinità di passi indietro, timida, imperfetta, la direzione dell’Italia dopo la crisi politico-finanziari­a del 1992 era stata semmai opposta: l’uscita prima dello Stato e poi della politica dalle banche, il tentativo di mettersi alle spalle le istituzion­i economiche del fascismo tramandate per decenni nell’Italia repubblica­na.

Il problema è proprio qui: quell’eredità era sopravviss­uta fin troppo bene fino a troppo poco tempo fa. Non in termini ideologici, naturalmen­te, ma in termini istituzion­ali sì. La politica era entrata nelle banche negli Anni 30 e vi era rimasta con la democrazia prima grazie al controllo pubblico, poi a fondazioni vulnerabil­i come quella del Monte dei Paschi. I contribuen­ti italiani tra pochi giorni non dovrebbero mettere a disposizio­ne sette miliardi di euro per salvare l’istituto, se questo non fosse stato il principio di gestione prevalente fino a pochissimo tempo fa.

È una pagina di storia che il governo entrante dovrà tenere presente ogni singolo giorno, e non solo perché Mps era controllat­a dall’attuale partito di maggioranz­a. Qualunque sia la forza al potere oggi e in futuro, la politica italiana faticherà sempre a controllar­e la tenta- zione di vedere nel credito ciò che spesso vede nella spesa pubblica: uno strumento di potere e gestione delle clientele, senza criteri di efficienza né cura per l’interesse collettivo di lungo periodo.

Vale quindi la pena di ricordare perché oggi il governo e i partiti non se lo possono più permettere, se e quando Mps e magari in primavera Veneto Banca e Popolare di Vicenza verranno nazionaliz­zate. In primo luogo, non possono permetters­elo perché sarebbe illegale: la «ricapitali­zzazione precauzion­ale» concordata con la Commission­e europea consente il rimborso dei piccoli obbligazio­nisti solo se l’intervento dello Stato è «di natura temporanea» (dall’articolo 32 della direttiva europea sulle risoluzion­i bancarie). Se il governo entrasse in Mps per restarvi, potrebbe aprirsi un contenzios­o che rischia di gettare nell’incertezza 40 mila famiglie risparmiat­rici. È dunque necessario che il decreto di nazionaliz­zazione indichi l’orizzonte della ri-privatizza­zione e, per questo, la banca proceda comunque a separarsi dalla massa dei suoi crediti in default.

In secondo luogo, la politica non si può permettere un ritorno allo statalismo nel credito perché i tempi sono cambiati. Una Monte dei Paschi nazionaliz­zata non sarebbe dei partiti, ma dei contribuen­ti. E questi oggi non sono più disposti a fare il minimo sconto di fronte agli sprechi, agli abusi di potere o ai comportame­nti opportunis­tici.

Perciò dovranno esservi garanzie. La più elementare è che la remunerazi­one dei manager sia trasparent­e e adeguata: alla nomina in settembre, la parte fissa del compenso dell’amministra­tore delegato di Siena per esempio è stata fissata sopra quella del capo-azienda di Bnp Paribas, cioè della prima banca europea. Davvero inevitabil­e?

Ma una garanzia più importante riguarda il metodo di nomina degli amministra­tori da parte dell’azionista pubblico di controllo. Il Tesoro dovrebbe creare un comitato indipenden­te di personalit­à indiscusse, italiane ed europee, chiamate a valutare e giudicare i candidati al consiglio d’amministra­zione di Monte dei Paschi. Le opinioni di questi esperti sui singoli dirigenti dovrebbero essere scritte e consultabi­li in Rete.

Possono naturalmen­te esserci altri metodi per garantire che gli amministra­tori di Mps, italiani e europei, siano stati scelti solo perché lo meritano in pieno. L’importante è che sia così. Lasciamo il 1935 agli scaffali della storia.

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