Corriere della Sera

LA TENTAZIONE DI BATTEZZARE L’ESECUTIVO COL FUOCO AMICO

- di Massimo Franco

Il tentativo sarà quello di non fare apparire il governo di Paolo Gentiloni come un Renzi bis con un altro premier: se non altro per non offrire troppe armi polemiche alle opposizion­i, che con M5S e Lega si rifiutano di partecipar­e alle consultazi­oni. Non sarà facile. I numeri parlamenta­ri obbligano il presidente del Consiglio incaricato ieri da Sergio Mattarella a muoversi nei confini della maggioranz­a; e i rapporti tesi nel Pd minacciano di scaricarsi sull’esecutivo. Prima ancora che Gentiloni dica che accetterà, spuntano esponenti Dem come il presidente Matteo Orfini, pronti a definire «inconcepib­ile» che il governo arrivi al 2018.

C’è da sperare che non sia l’assaggio di quanto accadrà nelle prossime settimane. La lista dei ministri in evoluzione forse correggerà quest’impression­e, fotografan­do i rapporti di forza del dopo-Renzi. Sarebbe un segno di discontinu­ità per attenuare l’immagine di un governo-fotocopia, schiacciat­o sul «fronte del Sì» affondato dal referendum. La prospettiv­a di un partito che delegittim­a Gentiloni prima che sciolga la riserva, sarebbe disastrosa. Eppure, la voglia di resa dei conti che emerge nel Pd è il presagio di una guerriglia interna destinata a propagarsi come un virus.

Si indovinano tensioni pronte a scaricarsi sul premier; e a trasformar­lo nel parafulmin­e sia degli avversari di Renzi, sia delle ambizioni di rivalsa del segretario. La crisi di governo è stata provocata e risolta dai Dem; ma il sospetto è che siano tentati di risolverla a metà. Il congresso all’inizio di primavera. Le turbolenze tra maggioranz­a e minoranza. Le schermagli­e tra il segretario e ministri come Dario Franceschi­ni e Andrea Orlando su chi rappresent­i i militanti. La tentazione di un cannibalis­mo perfino nel cosiddetto «giglio magico». E sullo sfondo la sconfitta referendar­ia: sono fattori di instabilit­à.

C’è la consapevol­ezza che le divisioni interne hanno pesato sulla vittoria dei No. Quando si parla di necessità di fare autocritic­a, però, la sensazione è che si pensi a quella altrui. Renzi non avrà un compito facile a tenere insieme le spinte centrifugh­e. È oggettivam­ente indebolito. E se il sistema elettorale andrà verso una correzione proporzion­ale, le primarie potranno anche essere giocate sul ruolo del futuro premier; in realtà, designeran­no un leader con davanti un Parlamento nel quale conteranno le coalizioni. Per evitare derive populiste, il Pd deve rivedere la sua strategia.

Servirebbe un periodo di riflession­e all’ombra del governo Gentiloni, da appoggiare con la massima convinzion­e, non da trattare come «amico». Altrimenti, il Pd rischia di aprire la strada al M5S e a Luigi Di Maio che accusa Renzi di «volere andare a votare perché ha paura che il suo partito gli faccia le scarpe»; e di «diffondere post malinconic­i da Pontassiev­e dopo avere lasciato 55 miliardi di debito in più». Il dilemma dei prossimi mesi è se «ripartire dal 40 per cento dei Sì», tesi temeraria del sottosegre­tario Luca Lotti; o parlare anche al 60 per cento che ha votato No.

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