Tempi del Congresso, lite nel Pd Il leader ragiona sulle dimissioni
Per lo statuto l’assise si può anticipare solo se non c’è un segretario in carica Sinistra all’attacco. E lui potrebbe lasciare domenica prossima in assemblea
Per dire dell’aria che tira sui cieli del Nazareno, basta segnalare il «giallo» sulla presenza del leader oggi in direzione nazionale. Matteo Renzi ha trascorso nel dubbio la sua prima giornata da non-premier: presentarsi o no davanti al «parlamentino»? Per chi conosce la sofferenza dell’addio da Palazzo Chigi e l’intenzione di non alimentare risse interne, «Matteo non ne ha nessuna voglia». Per Orfini invece «il segretario ci sarà».
Il tam tam dei tamburi di battaglia dice che Renzi si stia rassegnando alle dimissioni, magari non domani, ma domenica all’assemblea nazionale che potrebbe tenersi a Milano. Un colpo di scena che avrebbe un fondamento tecnico, perché a norma di Statuto il congresso si può anticipare solo se il Pd non ha un segretario in carica. Qualora l’ex premier decidesse di aprire la sfida congressuale sei mesi prima della scadenza naturale del suo mandato (giugno 2017), dovrebbe lasciare e consentire l’elezione di un successore che guidi il Pd fino alla scelta del nuovo leader. Se non dovesse dimettersi, le strade sarebbero soltanto due. Quella (assai improbabile) della sfiducia, oppure cambiare le regole in corsa.
«Renzi vuole anticipare il congresso? Deve dimettersi, altrimenti iniziamo male — avvertono nella minoranza — Non può fare un putsch contro lo Statuto». Come ha dichiarato a La Stampa Davide Zoggia, «a guidare la transizione non può essere Renzi». Anche per Enrico Rossi «serve un segretario di garanzia», eppure Matteo Orfini dice in tv da Lucia Annunziata che le dimissioni del leader non sono il punto: «La gestione del congresso ce l’ha una struttura terza, è una soluzione ipertrasparente».
La minoranza Fornaro chiede al nuovo esecutivo «discontinuità» su scuola e lavoro
Il presidente del Pd, ancora furioso contro la sinistra del No, invita piuttosto la direzione a trovare «una via di mezzo tra anarchia e disciplina di partito».
Clima pessimo, aria da resa dei conti imminente. «Se continuiamo a oscurare il dibattito, continueremo a perdere», attacca Nico Stumpo. E Miguel Gotor sprona Renzi a smetterla «con i plebisciti e gli schiaffi del soldato». E non basta, perché la sinistra chiede a Paolo Gentiloni di invertire la rotta e scandisce una parola che sarà un mantra per la minoranza: discontinuità. Il che, per Federico Fornaro, vuol dire «rimettere in discussione riforme come scuola e mercato del lavoro». La linea di Roberto Speranza è «niente sconti a Renzi» e «nessun pregiudizio verso Gentiloni», purché il governo non sia «una fotocopia». Il segretario vorrebbe cambiare il meno possibile, sia al Pd che al governo. Maurizio Martina spera di restare ministro e non diventare vicesegretario unico. Lorenzo Guerini rimarrà al Nazareno. E pure i capigruppo franceschiniani Ettore Rosato e Luigi Zanda intendono restare ai loro rispettivi posti di comando.
Il congresso riapre i giochi anche nella minoranza, dove si parla di «battaglia finale». Speranza resta in campo, ma ancora non si candida ufficialmente. Sì, perché i bersaniani non hanno ancora scelto lo sfidante di Renzi. Dai sondaggi ad avere maggiori chance sono Rossi e Bersani, ma se il primo sta per presentare formalmente la sua candidatura al Nazareno, l’ex segretario non sembra intenzionato a tornare in campo.
Nel Pd le carte si stanno rimescolando così in fretta che, tra le tante ipotesi, spunta anche quella di una candidatura di Franceschini.