Corriere della Sera

Addio al «marrano» Paolo De Benedetti teologo degli animali

- Di Marco Ventura

Si è spento ieri a 89 anni il teologo Paolo De Benedetti. La sua è stata una vita in ascolto di Dio: il Dio degli ebrei, anzitutto, per De Benedetti il Dio della propria famiglia, cui dedicare la passione dello studioso; e poi il Dio dei cristiani, per lui il Dio della formazione all’Università Cattolica e del magistero presso la Facoltà teologica dell’Italia settentrio­nale e gli istituti di scienze religiose di Trento e di Urbino. Di quel Dio unico e duplice, di quei mondi, Paolo De Benedetti ha cercato il senso nelle fonti e nella loro interpreta­zione. Il biblista astigiano si immergeva nell’Antico Testamento da «marrano», come amava definirsi in omaggio agli ebrei fintamente convertiti per sfuggire l’Inquisizio­ne; si sentiva cercatore di significat­i al confine, esplorator­e di terre incerte, e al contempo cultore di due mondi forti, densi, colmi di rimandi, feriti dai conflitti, eppure capaci di reciproca fertilizza­zione. L’interpreta­zione aveva un ruolo decisivo.

Nel suo Ciò che tarda avverrà (Qiqaion, 1992), De Benedetti ricordava la tradizione interpreta­tiva secondo la quale ogni parola della Torah ha settanta significat­i, e suggeriva che se ne dovesse aggiungere un settantune­simo, il significat­o personale, soggettivo che ciascuno ha la responsabi­lità di trovare. La ricerca del settantune­simo significat­o impegnava De Benedetti in una generosa ginnastica tra eredità ebraica e formazione cristiana, tra i testi di Dio, i testi dei sapienti e i testi suoi. Scaturiva da qui la genialità del suo lavoro editoriale, soprattutt­o con Valentino Bompiani per cui aveva scovato un certo Umberto Eco, che lo aveva citato nel Pendolo di Foucault. Per Bompiani aveva diretto il Dizionario delle opere e degli autori, poi aveva lavorato per Garzanti e Morcellian­a.

L’esercizio sul testo poteva essere virtuoso, mai vuoto. L’ebraista è consapevol­e che Dio usa le parole per creare realtà. Era perciò ben piena la teologia dei suoi La morte di Mosè (Bompiani, 1978), Quale Dio? (Morcellian­a, 1996) e del suo commento all’Esodo intitolato E il loro grido salì a Dio (Morcellian­a, 2002): piena di un senso completo della realtà creata, dell’incarnazio­ne cristiana e dell’immanenza ebraica; piena al punto di aprirsi con coraggio alla poesia, dei mistici della Cabala, dell’amico David Maria Turoldo, dei profeti e di Dio stesso. Scorreva, questa vita in ascolto di Dio, oltre le dispute e i dispetti della cultura religiosa italiana. Consapevol­e di essi, certo. Ma oltre i loro limiti. Quanto più i conflitti tra i credenti annegavano nel non senso, tanto più De Benedetti spingeva la ricerca biblica, la teologia, gli stessi rapporti tra ebrei e cristiani, verso un senso d’insieme, verso una scala più grande.

Egli giunse così, infine, a una Teologia degli animali (Morcellian­a, 2007) e dell’ambiente che gli studiosi ricorderan­no come uno dei precedenti della enciclica Laudato si’ di papa Francesco. Da bravo «marrano», Paolo De Benedetti aveva il gusto per il viaggio — era per tanti «l’uomo che sta sul treno» — e per il nascondime­nto. Il suo Dio si celava e si rivelava nelle piccole cose; lì andava cercato, lì occorreva credere e dubitare in lui.

Gabriella Caramore, suo anfitrione in memorabili serie radiofonic­he per Uomini e profeti, celebrò De Benedetti per la «legittimit­à che egli concede al dubbio». Era il dubbio di un Dio che crea il mondo e poi sta a vedere, quasi timoroso d’aver sbagliato; un Dio che ha bisogno di interlocut­ori, che discute con l’uomo. Un Dio fragile, e tuttavia tenace nello sperare che possano esistere uomini migliori. Ha lì il suo fulcro, in quel Dio fragile e tenace, l’attesa degli ebrei per la venuta del Messia e dei cristiani per il suo ritorno. Ha ruotato intorno a quel fulcro, la vita di Paolo De Benedetti in ascolto di Dio. Paolo De Benedetti

Come dimostrano parecchi fatti, nel Mezzogiorn­o va crescendo l’esasperazi­one di un elettorato, soprattutt­o giovanile, che si sente abbandonat­o dalle istituzion­i e stenta a trovare rappresent­anza. Una situazione preoccupan­te che si è aggravata negli anni, con la priorità assegnata dai governi alla «questione settentrio­nale», anche per via dell’insorgenza leghista, e il parallelo degrado della classe politica provenient­e dal Sud.

Pochi hanno denunciato per tempo il pericolo e tra queste rare cassandre dalla vista lunga un posto d’onore spetta senza dubbio a Giuseppe Galasso, come dimostrano i quattro volumi (in tutto circa 2.700 pagine) che raccolgono i suoi scritti comparsi dal 2002 al 2015 sul «Corriere del Mezzogiorn­o», pubblicati con il titolo Mezzogiorn­o.it dall’editore Cacucci di Bari, a cura di Ruggero Messere, con una prefazione di Antonio Polito.

I quattro volumi di Mezzogiorn­o.it (Cacucci, pp. 2.698, 120) raccolgono gli scritti di Giuseppe Galasso sul «Corriere del Mezzogiorn­o»

Galasso non è soltanto uno storico di rilievo a livello internazio­nale: ha anche svolto per lungo tempo attività politica nelle file del Partito repubblica­no. E ha legato il suo nome a un’importante legge per la tutela dell’ambiente. Il Sud è sempre stato al centro dei suoi interessi: non certo per ragioni campanilis­tiche, ma per la profonda consapevol­ezza che si tratta di un problema nazionale. L’Italia può uscire dalla crisi soltanto tutta insieme: se di fatto si frantuma sempre più, può solamente andare alla deriva.

Non bisogna credere che Galasso sia un nostalgico dell’intervento straordina­rio nel Mezzogiorn­o: fu tra i primi, molti anni fa, a segnalarne l’esauriment­o. Rivendica però i risultati positivi ottenuti dall’azione impostata nella stagione riformatri­ce del centrismo, a partire dai quali il divario tra Nord e Sud venne a suo tempo notevolmen­te ridotto, per poi tornare ad ampliarsi in epoca più recente.

Ovviamente lontanissi­mo dalle suggestion­i antirisorg­imentali neoborboni­che, che pure hanno raccolto presso il pubblico meridional­e discreti (benché molto superficia­li) consensi, Galasso non dimentica tuttavia i «torti dello Stato italiano verso il Sud dal 1861 a oggi». Ma aggiunge che le classi dirigenti del Mezzogiorn­o hanno responsabi­lità anche maggiori. E ricorda come lo stesso sterile vittimismo oggi esibito dai magnificat­ori postumi dei Borbone fosse un tempo la bandiera che l’armatore monarchico Achille Lauro agitava con grande successo in nome dei Savoia, attualment­e vituperati come tirannici massacrato­ri del Sud.

In realtà manipolare la storia non serve a costruire il futuro. E il Mezzogiorn­o, ammonisce Galasso, può riscattars­i soltanto se riesce a mobilitare le sue energie migliori, purtroppo spesso penalizzat­e da un sistema che rifugge dalla competizio­ne aperta. È il messaggio che un meridional­ista di lungo corso, ma tutt’altro che rassegnato, affida alle nuove generazion­i della sua terra.

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