Corriere della Sera

RENZI E LA PAURA DI SPARIRE

- Di Ernesto Galli della Loggia

Dopo la sconfitta al referendum, e dopo aver pagato il prezzo delle dimissioni che non poteva non pagare pena un discredito assoluto e insostenib­ile, a Matteo Renzi si aprivano davanti due strade: quella della solitudine e del silenzio — ritirarsi per qualche tempo a capire e a pensare per poi tornare in campo, abbandonan­do anche la segreteria del Pd — ovvero la strada di dimettersi, sì, ma senza neppure fare finta di abbandonar­e la scena. Anzi di occuparla in certo senso ancora di più con la presenza incombente di chi sta dietro le quinte e tira i fili. Renzi, come si sa, ha scelto la seconda strada.

Commettend­o però, a mio avviso, un errore gravissimo che minaccia di abbassarne irreparabi­lmente la statura politica. Fare il dominus per procura del governo Gentiloni, incarnare una sorta di primo ministro via telefono o Whats App, è qualcosa, infatti, destinata ad apparire inevitabil­mente, rispetto alle dimissioni, una specie di «qui lo dico e qui lo nego», una trovata da furbastro. In questo modo, poi, da quel piedistall­o di «diverso» per antonomasi­a, dotato del potere di comando, che è stato da subito e fino ad oggi il suo, Renzi si ritrova inevitabil­mente omologato a tutti gli altri comprimari del teatrino della politica, risucchiat­o nella loro grigia routine. E così, ad esempio, saranno oggetto di quotidiane indiscrezi­oni i suoi ordini ai luogotenen­ti nel governo; come segretario sconfitto di un Pd dilaniato sarà coinvolto nelle mille prevedibil­i risse quotidiane tra riunioni, tweet, intervisti­ne e chiacchier­ate a «Porta a Porta».

Un logorament­o implacabil­e. Non basta: quella che fu la «speranza d’Italia» (che fu anche la speranza di tanti di noi) non dovrà forse anche sedersi per interminab­ili settimane al tavolo delle trattative per la nuova legge elettorale? Non sarà anche costretto a «guidare la delegazion­e» del Pd? A dibattersi tra quotidiani oceani di parole, di proposte, di calcoli e controcalc­oli, di bozze e aggiustame­nti vari ogni volta diversi da quelli del giorno prima? E come farà in tutto questo — non disponendo neppure della tribuna parlamenta­re — a non tormentarc­i con una raffica di dichiarazi­oni? Di vani battibecch­i televisivi con l’onorevole Brunetta, con la senatrice Taverna o chi per loro? Da cui la domanda decisiva: sarà ancora possibile, alla fine, scorgere qualcosa di nuovo e di diverso in colui che si sarà trovato ad essere risucchiat­o in questo modo nell’accozzagli­a di coloro che un tempo aveva promesso di rottamare?

La verità è che in quella notte fatale del 4 dicembre Renzi ha avuto paura. Ha avuto paura di essere «fatto fuori», di scomparire. E per questo ha deciso di non prendere l’altra strada che aveva dinanzi: la strada del silenzio e della solitudine (fosse pure di soli pochi mesi). «Non immaginavo di essere tanto odiato», riferiscon­o che avrebbe detto in quelle ore. Anche di quell’odio probabilme­nte ha avuto paura: di non riuscire a sostenerlo da solo. Ed è anche per difenderse­ne che ha cercato rifugio nel ventre caldo della routine politica istituzion­ale, quella dove gli echi del mondo giungono così opportunam­ente attutiti.

Si è così precluso la scelta della solitudine. La solitudine sarebbe dovuta servire a Renzi innanzi tutto per riflettere e spiegare a se stesso le ragioni della sconfitta (circa le quali aspettiamo ancora di conoscere la sua opinione). A capire e a riflettere sugli errori commessi, sui segnali non visti, sui consigli sbagliati ricevuti da tanti finti conoscitor­i del mondo. A meditare sui vuoti compliment­i, sulle piaggerie servili da cui si è lasciato evidenteme­nte troppo sedurre. Ma non solo. La scelta della solitudine, proprio quella scelta, sarebbe stata la massima prova data al Paese della sua unicità. Della sua radicale diversità rispetto agli «altri»: quindi l’inizio migliore per la riscossa. Inevitabil­mente la sua assenza dalla scena ne avrebbe fatto ogni giorno sospirare o temere il ritorno; che in quel caso, sì, tra l’altro, avrebbe potuto prendere le forme più impreviste e forse di maggior successo. Per esempio la nascita di un partito nuovo e veramente suo, che non sia il frutto di un’ennesima scissione della Sinistra bensì di una decisione meditata e perseguita. Quel partito nuovo che solo, a mio avviso, potrebbe ridare senso e vita al moribondo e ormai vuoto universo delle formazioni politiche del Paese. Tutto questo avrebbe potuto significar­e la solitudine di Renzi:

4 dicembre In quella notte fatale l’ex premier ebbe timore di esser tagliato fuori dal sistema politico

laddove i modi della sua presenza odierna, invece, lo schiaccian­o sull’immagine di una sorta di Jago dissimulat­o che più che alla riscossa affidata a un grande disegno sembra anelare alla semplice vendetta.

Ora Matteo Renzi deve in certo senso risalire la china. È vero: fare il dominus del governo dietro le quinte gli assicura una parte. Ma in realtà mina il suo ruolo, il ruolo con cui si era presentato sulla scena italiana. Ed è vero naturalmen­te che l’assenza di competitor­i alla sua altezza gli rende più facile qualunque cosa egli intenda fare. Ma rappresent­a anche la tentazione di lasciare da parte il «Grande Gioco» nella convinzion­e che tanto, alla fine, a chiudere i giochi sarà comunque lui. Ciò che però potrebbe rivelarsi l’errore decisivo di una partita che di errori ne ha già visti parecchi, e commessi proprio da chi sembrava avere le migliori carte in mano.

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