«Ma Montanelli ammirava i comunisti»
Il grande inviato: Ceausescu? In Romania comandava la moglie
«Montanelli disprezzava la borghesia che difendeva, e ammirava i comunisti che combatteva». Enzo Bettiza racconta i suoi 90 anni e i grandi che ha conosciuto: Montale, Piovene, Tito. E Gina Lollobrigida.
Bettiza, lei divenne noto perché fu il primo corrispondente occidentale da Mosca a scrivere che i russi avevano rotto con i cinesi, e la frattura nel blocco comunista avrebbe aiutato l’America a vincere la Guerra fredda.
«Oggi dovrei mettere su YouTube un video mentre ballo. Ma ho quasi novant’anni, e non me lo posso permettere».
Com’era la Mosca poststaliniana?
«Piena di promesse, percorsa da fermenti sotterranei. C’era l’orgoglio di aver vinto la Seconda guerra mondiale, di essere entrati a Berlino. E s’era allentata la cappa di piombo».
Restava la censura però.
«Ogni giorno dovevo far leggere il mio articolo prima di dettarlo al giornale. Da due tende accostate usciva una mano di donna che afferrava il foglio, e me lo restituiva con qualche correzione. Non l’ho mai vista in volto».
Il direttore del suo giornale, «La Stampa», era il leggendario Giulio De Benedetti.
«Se tardavo mi mandava telegrammi tipo: “Lei non solo non sa scrivere, non sa neppure telefonare”. Oppure: “La prossima volta mandi il pezzo per posta”».
Come andò la vostra rottura?
«Ero a Mosca da troppo tempo. Dovevo rientrare per non soccombere al male russo; ma lui non voleva saperne. Mi misi in viaggio per Torino in auto. Guidai per tre giorni, passai un lago su un traghetto. Mi ricevette nel cuore della notte».
E la cacciò ululando.
«Era molto ignorante e molto piccolo. Odiava gli uomini alti; e io ero una spanna più di lui».
Non era un grande direttore?
«Era un grandissimo direttore. Vivace, esigente, punitivo. Fece piangere Monelli e Biagi. Igor Man ne era fisicamente terrorizzato. Fu un sollievo passare al Corriere».
In «Via Solferino» lei traccia di Ottone un ritratto feroce. La forfora. Il piede caprino.
«Eppure, ogni volta che l’ho poi incontrato, mi ha sempre abbracciato e sorriso come se nulla fosse».
Un uomo di classe.
«Un uomo dalla straordinaria capacità di simulare e dissimulare».
Lei lasciò il «Corriere» con Montanelli, di cui fu condirettore al Giornale.
«Stare con Indro era come andare sulle montagne russe. Cadeva in depressioni profonde. Poi saltava su come un grillo, scriveva un fondo in dieci minuti, telefonava alla madre novantenne. Si innervosiva quando conversavo in croato con Frane Barbieri: “Basta parlare ostrogoto!”».
Nei suoi Diari, anno 1966, Montanelli annota che lei era certo della sconfitta del comunismo.
«Montanelli disprezzava la borghesia che difendeva, e ammirava i comunisti che attaccava. Era convinto che la rivolta di Budapest si dovesse a operai che volevano il vero socialismo; mentre fu una rivolta nazionalista e antisovietica. E i russi, incoraggiati da Togliatti, impiccarono Nagy, per sostituirlo con il suo amico Kadar, ex dissidente. Che accettò, nonostante il capo della polizia politica Farkas, per umiliarlo, gli avesse pisciato in bocca. Questo era l’homo sovieticus».
Anche lei a vent’anni fu comunista. Perché?
«Perché mi affascinava il male. O per un atto di generosa follia. In Dalmazia i comunisti di Tito avevano spogliato la mia famiglia di tutto. Andammo a vivere in un campo profughi in Puglia, retto dagli inglesi con inutile crudeltà. Uomini e donne venivano separati».
E lei fuggì.
«Vivevo di espedienti. Sono stato contrabbandiere, venditore di libri a rate, giocatore di poker».
A Roma studiò all’Accademia di Belle Arti.
«Erano tutti innamorati di una ragazza giunonica: Gina Lollobrigida».
Le si attribuisce uno storico successo con le donne.
«Non sono mai stato trascurato».
La vera rottura con Montanelli fu su Craxi.
«Craxi aveva grande mobilità mentale, e più cultura di quella che mostrava. Mi riconoscevo nel suo liberalsocialismo. Indro appoggiava la Dc, pur disprezzandola».
Vi ritrovaste quando lei rifiutò la direzione del Giornale.
«Avrebbero comandato altri. Non potevo comportarmi come un Gian Galeazzo Biazzi Vergani. Quattro nomi, tutti inutili».
Com’è il suo rapporto con Scalfari?
«Ottimo. Mi propose di andare a Repubblica. Visitai con lui la redazione deserta in un giorno di sciopero. C’era una sola giornalista, di passaggio: Laura Laurenzi. Ora è mia moglie».
Figlia del suo collega Carlo Laurenzi.
«All’inizio non la prese bene. Poi, quando seppe che Laura aspettava un bambino, disse: “Speriamo che sia femmina”. Era femmina. Ora lavora a Londra, alla Bbc. Abbiamo anche un maschio».
Come mai non andò a «Repubblica»?
«Credo per il parere negativo dell’allora moglie di Scalfari: Simonetta De Benedetti, la figlia di Giulio. Non mi aveva perdonato lo scontro con il padre. Donna di valore, peraltro. Curiosa, volitiva. Piena di humour».
Alla redazione del «Corriere» lavorava Eugenio Montale.
«Gradevole, ironico. Pacato fustigatore di chi non amava. Cioè quasi tutto il resto dell’umanità».
Biagi com’era?
«Fu mio direttore a Epoca. Grande organizzatore di se stesso e del proprio successo. Ma sapeva graffiare».
Com’erano i rapporti tra Biagi e Montanelli?
«Falsamente buoni».
E Bocca?
«Giornalista d’istinto. Capace di rendersi simpatico e antipatico. Lo incontrai a Macao, lo portai in giro, lo aiutai. Il giorno dopo lessi nel suo articolo: “C’è qui anche il decadente Bettiza…”».
Cosa ci faceva a Macao?
«Andare sul posto è fondamentale, e Macao era un’ottima base per raccogliere notizie sulla Cina. Come Hong Kong, dove scendevo al Mandarin. Una volta ci rimasi un mese».
Un mese?
«Sono stato uno degli ultimi privilegiati. Tornai a Hong Kong per un reportage sul ricongiungimento alla Cina. Irriconoscibile. Come l’India. Un giorno a Delhi stavo pranzando all’aperto con un collega croato, parlando ostrogoto. Avevo poggiato le sigarette Benson&Hedges sul tavolo. A un tratto il cielo si oscurò. Era un’aquila, attratta dal luccichio dorato del pacchetto. Fece cadere i piatti, e si involò con le mie sigarette tra gli artigli».
A Mosca lei tornò con Pajetta, poco prima che morisse.
«Eravamo nella delegazione del Parlamento europeo. L’avevo conosciuto nella campagna elettorale del ’48: facemmo un viaggio insieme di tre ore e non mi rivolse una parola. Nella Mosca gorbacioviana Pajetta era disperato. Litigava in russo con i camerieri: “State svendendo tutto agli americani, pure le spoglie di Lenin finiranno al museo delle cere di New York!”. Poi parlò davanti alla nomenklatura, rinfacciandole mezzo secolo di inganni. I russi erano allibiti. Lo guardavano come un matto».
E Berlinguer?
«Andai a parlargli alle Botteghe Oscure dopo la primavera di Praga. Era una delle prime volte che il Corriere dava spazio a un leader del Pci. Stavo al Raphael, l’hotel di Craxi. Berlinguer volle riaccompagnarmi sulla sua 500. Guidò lui. Era molto diverso da Togliatti».
Il suo ‘68 passò tra Praga, Berlino e Parigi.
«Mi imbattei nel Maggio mentre facevo un’inchiesta sulla cultura francese, lei sì decadente. Lacan era un maniaco sessuale. Foucault svernava in Tunisia inseguendo i suoi amori omosessuali. Sartre e Simone de Beauvoir si tradivano freneticamente l’un l’altro, con il patto di raccontarsi tutto per farsi soffrire. A Berlino spararono a Dutschke. Ma il vero Sessantotto fu Praga».
Lei intervistò Tito e Ceausescu.
«Tito era uomo della Mitteleuropa. Figlio naturale di un aristocratico, adorava le operette viennesi. Aveva sposato una morlaccona piacente, Jovanka. Lo incontrai a Brioni, l’isola dove viveva tra giraffe, struzzi, elefanti. Ceausescu era un vampiro transilvano. Lo vidi tre volte, c’era anche il vero capo della Romania: sua moglie Elena. Un’erinni dagli occhi puntuti».
E Krusciov?
«Un contadino ucraino che giocò il sopravvalutato Kennedy. Gli eresse il Muro sotto il naso ed evitò la guerra nucleare, nonostante Castro la sollecitasse: era pronto a vedere distrutta Cuba pur di distruggere l’America».
Lo Scià di Persia?
«Mi diede appuntamento a Teheran alle 11 del mattino del giorno di Natale, per dispetto. Andai. Non vedeva la sua fine imminente».
Lei fu legato a Piovene e a Buzzati.
«Mi aiutarono molto. Era una generazione che vedeva i giovani come discepoli, non come rivali».
Nella prefazione ai Meridiani descrive la malattia di Piovene.
«Non si è mai capito bene cosa avesse. Il male lo svuotò come il polpo con l’aragosta, lasciando solo il carapace. Guido divenne la salma di se stesso, e di tutti i fantasmi della sua immaginazione. Gli occhi però erano vivissimi».
Come si muore?
«Con il rimorso di esistere».
Crede nella vita dopo la morte?
«Tendo a credere che siano aperte più possibilità. Più forme d’esistenza. Vite parallele di cui non abbiamo notizia».
C’è una parola ricorrente nei titoli dei suoi libri: Il fantasma di Trieste, I fantasmi di Mosca.
«Magari fosse mai venuto a visitarmi un fantasma. Ma conosco la teoria dell’antimateria: da qualche parte potrebbe esserci un mio doppio. Come se noi fossimo le copie di noi stessi, in un altro luogo, in un altro spazio».
Lei in quali lingue sogna?
«Se sogno la mia tata, in croato. Se sogno la contessa Poliakova e la figlia, che mi ospitarono a Mosca, in russo. Ma se sogno mio padre, sogno in dialetto veneto».