«I miei otto anni con Obama e i consigli a Trump»
«Foolish guy»: il portavoce di Barack Obama, che nel suo briefing quotidiano ha preso di petto Donald Trump accusandolo di aver saputo fin da luglio dell’azione di hackeraggio dei russi contro Hillary Clinton e di aver incoraggiato Mosca ad attaccarla ancora di più, la prende con filosofia. Non è scosso dall’attacco personale del presidente eletto che in un comizio gli ha dato dello sciocco, mettendo in dubbio perfino la sua capacità di comunicare e la sua sintonia con Obama.
Figlio del Midwest americano — viene da Kansas City — Josh Earnest è, in realtà, un fedelissimo del presidente, oltre che un tipo dai nervi saldi. Il solo, insieme a Valerie Jarrett, ad essere rimasto nel suo team fin dall’inizio della presidenza. Tanto garbato nei modi quanto coriaceo, temprato dalle pressioni quotidiane. Nella Casa Bianca zeppa di funzionari stipati in stanze minuscole senza luce, la sua è una rara eccezione: una sala ampia con tre porte-finestre che danno sul giardino presidenziale.
Pare un posto tranquillo, ma tutti dicono che è una pentola a pressione. Ancora più in questi giorni di difficile transizione. Come fate a coniugare collaborazione e confronto duro col successore? Obama parla spesso con Trump, lo aiuta. Quando l’ha ricevuto è parso cordiale, rilassato. Ma poi le accuse sulle interferenze russe sono durissime.
«Un anno fa lui ci disse che la nostra principale missione del 2016 era quella di preparare una transizione senza scosse. Aiutare il successore ad essere operativo dal primo giorno. Certo, pensavamo di lasciare la Casa Bianca a Hillary Clinton. Invece abbiamo Trump. Ma il principio è lo stesso: evitare un’instabilità che indebolirebbe l’America. Le differenze politiche, però, rimangono e sono profonde. Il presidente non rinuncia ad operare fino all’ultimo in base alla sua visione del mondo. Al contempo coopera con un successore che ha idee politiche assai diverse. Bisogna avere la lucidità di tenere i due piani, funzionale e politico, ben separati».
Due mandati alla Casa Bianca, gli ultimi tre anni da portavoce del presidente. In realtà con Obama da dieci anni, visto che sei stato il manager della sua campagna in Iowa nel 20072008. I momenti più difficili?
«Purtroppo alla Casa Bianca dobbiamo spesso confrontarci con grandi tragedie. La strage dei bambini della prima elementare della scuola di Newtown, quattro anni fa, è stata la più dolorosa. Obama rimase senza fiato. Era appena stato rieletto, alla Casa Bianca c’era un’atmosfera di festa, quando arrivò la nuvola oscura di questa tragedia enorme, incomprensibile. E poi i momenti drammatici del nostro impegno militare all’estero. I caduti americani. La tragedia delle vittime accidentali: il dolore per gli ostaggi che non siamo riusciti a salvare e, soprattutto, per quelli addirittura uccisi per sbaglio: un’altra giornata difficilissima, che ci ha segnato profondamente».
Il drone che uccise l’ostaggio americano e l’italiano Giovanni Lo Porto.
«Incredibile. Dolore e rabbia. Hai concentrato tante risorse, economiche e umane, per cercarli, per salvarli. E poi li uccidi per un tragico errore. E’ stato il briefing forse più difficile della mia vita. Emotivamente ma anche intellettualmente, per la necessità di tener separate nella mia mente le co- se che si potevano rivelare dalle informazioni classificate che devono restare segrete. Poi Obama decise di esporsi in prima persona. Venne lui a spiegare fin dove si poteva e a prendersi tutte le responsabilità dell’errore».
E i momenti più felici?
«Per me due. Uno prima di arrivare alla Casa Bianca: la notte del 3 gennaio 2008 quando Obama vinse a sorpresa il caucus dell’Iowa diventando di punto in bianco il favorito. Un momento unico. Barack chiamò i collaboratori, commosso. Non solo per ringraziarci. Disse che c’erano stati giorni nei quali era frustrato, preoccupato, scoraggiato. La forza per andare avanti gliela aveva data il team con la sua determinazione, l’entusiasmo, il suo crederci.
Poi, la più grossa soddisfazione, da portavoce, l’ho avuta ai tempi dell’accordo nucleare con l’Iran. Bisognava assolutamente evitare un voto contrario del Congresso dove anche molti democratici erano scettici o ostili. Credo che la nostra strategia di comunicazione sia stata efficace: quel voto non c’è stato».
Com’è cambiato il rapporto della Casa Bianca con la stampa in questi otto anni?
«L’ecosistema dei media è rivoluzionato. Oggi ci sono canali essenziali per l’informazione politica che quando siamo arrivati alla Casa Bianca nemmeno esistevano. Abbiamo imparato a dare spazio al giornalismo indipendente, a raggiungere un’audience più vasta usando i social media, ma siamo andati anche agli show televisivi notturni, alle trasmissioni dei canali dedicati all’ambiente. Ma senza mai trascurare il confronto col giornalismo professionale: essenziale perché obbliga il potere politico a rendere conto di ciò che fa, a essere responsabile».
Sei teso prima del «briefing» quotidiano, sapendo che con una parola sbagliata puoi creare un incidente diplomatico? Pensi che Trump abolirà questo momento che sembra considerare un rito non indispensabile?
«No, sono sereno, ho imparato negli anni. L’importante è prepararsi bene. Non solo nelle due ore precedenti, ma già la sera prima. Per me il briefing va mantenuto. La stampa ha altri canali: una telefonata, una email. Ma questo è l’unico momento per un confronto critico pubblico. Costringe, anche in modo simbolico, il potere politico ad essere trasparente responsabile: è l’essenza della nostra democrazia».
Si parla molto anche di un altro briefing: quello che i servizi segreti fanno ogni giorno al presidente. Trump è poco interessato. Può essere soppresso o fatto diversamente? Obama l’ha cambiato: lo vuole più approfondito.
«Obama vuole andare in profondità, ascoltare anche opinioni diverse, non convenzionali. Vuole tutti gli elementi prima di decidere. In futuro ci si potrà regolare in modo diverso, ma non credo si possa rinunciare alle informazioni dell’intelligence: decidi come vuoi, ma non decidi bene se non hai informazioni accurate».
Il tuo futuro?
«Un po’ di tempo per me, per riprendere fiato. Qualche conferenza. Poi mi metterò a cercare un lavoro altrettanto stimolante».
Ultima domanda, senza risposta: dove la trova l’adrenalina della Casa Bianca?
Il briefing per spiegare l’uccisione di Lo Porto è stato forse il più difficile della mia vita