Gli sbagli e la fase due
La trasparenza, il feticcio della trasparenza, il culto della trasparenza vissuto come rigenerazione della politica mortificata dalle ipocrisie dei vecchi partiti, sono precipitati nell’opacità dei vertici notturni a porte sigillate ad ascoltare le istruzioni di Beppe Grillo. «Onestà onestà», lo slogan fondativo che doveva segnare una linea di demarcazione invalicabile con la pratica della politica affogata negli scandali, si è svuotato di ogni significato. Il «sacro blog», luogo della democrazia diretta, senza i filtri della politica tradizionale e prigioniera del passato, o tace o diventa il palcoscenico di uno psicodramma. Cadono tutte le icone di questi anni partiti fragorosamente con il V day di Bologna: il mito dello streaming appassisce, «l’uno vale uno» si svuota di significato, l’illusione che qualunque cittadino possa avere tra le mani le leve del potere pubblico svanisce. L’immagine di un mondo compatto ed energico che, galvanizzato da Grillo e Casaleggio, fronteggia la vecchia politica tenendosi fuori dai suoi ritmi si sbriciola nel correntismo, nel personalismo, nell’imitazione degli schemi più triti di quella stessa vecchia politica. E con Virginia Raggi che viene abbandonata al suo destino si sgretola anche la presunzione che il dilettantismo sia un potente antidoto contro il troppo cinico e affaristico professionismo della politica.
Gli avversari dei 5 Stelle commetterebbero però un grave errore, anzi replicherebbero un errore già commesso, se pensassero che la fine della fase propulsiva del movimento di Grillo significhi la fine tout court dell’esperienza 5 Stelle, e soprattutto della presa che ancora esercita ed eserciterà su una fetta cospicua dell’elettorato. Si illudono perché pensano che ogni voto deluso dei 5 Stelle andrà a loro: si sbagliano, la frattura è stata troppo netta, troppo radicale, troppo carica di veleni. Ma il movimento di Beppe Grillo non potrà più usare la retorica del «vinciamo noi!» dopo la disfatta di Roma. Dovrà capire che cosa non ha funzionato a Roma e che invece sta funzionando, al momento, con Chiara Appendino a Torino (la sindaca che infatti comincia a girare come possibile candidata premier in alternativa a Di Maio e Di Battista). Dovrà capire come si seleziona una classe dirigente che non sia solo l’avanguardia di una protesta di piazza e di un happening di opposizione, ma abbia gli strumenti per governare una società complessa e città complicatissime come Roma Capitale. Dovrà misurarsi con la democrazia interna al movimento, archiviando definitivamente l’idea totalitaria che il leaderismo carismatico e la disintermediazione del web possano essere sufficienti per chi aspira legittimamente a governare il Paese. Perché la democrazia, per una forza politica che non voglia essere una setta, anche se una grandissima setta, è l’ossigeno di un progetto politico che non voglia restare sconfitto nel minoritarismo, e premia l’autonomia di pensiero e non l’obbedienza, la critica e non la fedeltà conformista. Il merito e non lo spirito gregario. Senza queste doti non si governa né Roma né l’Italia. Ne abbiamo avuto una prima prova.