Ma anche «allunare» sembrava da fantascienza Ed era soltanto il 1969
«Il verbo allunare lasciamolo alla fantascienza», scriveva Aldo Gabrielli nel 1969. Oggi il problema qualcuno se lo pone per ammartare. Ma è un falso problema. Perché la lingua segue la storia e, come un notaio, la verbalizza. La storia siamo noi, e la lingua anche. Quando capita che qualcosa di inimmaginabile diventi realtà, la lingua ne prende atto. Sulle prime, le parole che registrano le novità suonano strane: spesso quella stranezza rivela un atteggiamento difensivo. Questo è accaduto, in italiano, per la progressiva emancipazione femminile. In epoca di illuminismo, i dizionari settecenteschi definiscono così la parola filosofessa: «femminile di filosofo, ma forse non si direbbe, se non per ischerzo». Per il dizionario dei sinonimi del Tommaseo (cito da un’edizione del 1849) dottoressa «è sempre parola di beffa» e si usa «per chi pretende, con qualche tintura delle cose, giudicarne senza averne scienza vera». Ancora nel 1885, in una rivista di pedagogia, si ironizza con chi vorrebbe «aprire il tempio di Minerva all’uno e all’altro sesso, onde escano tante avvocatesse, medichesse, professoresse e matematiche». Anche una parola come professoressa aveva ancora un tono beffardo. Nel 1909, Carolina Invernizio pubblica un romanzo intitolato Nina la poliziotta dilettante: sappiamo bene cosa ha ispirato a un certo immaginario maschile — per quasi tutto il Novecento — la sola idea che ci fossero poliziotte, vigilesse o soldatesse. Come si sa, invece, avvocata e ministra vantano un secolare passato in usi religiosi, e anche sindaca era usato in certi ordini di suore. Il problema, allora, non sono le parole. Quello che a tanti sembra suonare male, soprattutto quando il femminile si riferisce a professioni o cariche di prestigio, è il fatto che adesso — finalmente — quelle parole vadano prese sul serio.