Piero Chiara, il viaggiatore sempre sull’«altra carrozza»
All’improvviso, la piccola vita della provincia italiana, che era stata epica in Alessandro Manzoni ed era diventata tragica in Riccardo Bacchelli, si scoprì minuta, goliardica, fantasiosa, adultera, malinconica e grottesca. Era il 1962, e usciva Il piatto piange, il primo romanzo di uno scrittore tardivo, approdato quarantanovenne alla scrittura ma divenuto assai prolifico, Piero Chiara (19131986), che inaugurava la prestigiosa collana «Il Tornasole» diretta da Vittorio Sereni con Niccolò Gallo in Mondadori.
Il 31 dicembre saranno trascorsi trent’anni dalla morte di Chiara, lo scrittore di Luino che
scoprì un mondo dietro ai «vetri smerigliati» (ben li colse Giulio Nascimbeni sul «Corriere della Sera») delle locande di paese, degli alberghi modesti, delle bische, delle sale in cui si giocava al biliardo e al poker. E Chiara era «il miglior conoscitore di tutti i possibili giochi»: così lo ricorda l’amico scrittore Mauro della Porta Raffo, in una ricca monografia che celebra il trentennale, un numero speciale della pubblicazione «Dissensi & discordanze» interamente dedicato al luinese.
Quei «giochi» erano sì i giochi di carte, cui si era dedicato Chiara in gioventù e che frequentò per tutta la vita, ma erano soprattutto le partite involontarie e beffarde che i protagonisti dei suoi romanzi giocavano con la vita. Emerenziano Paronzini, l’uomo diviso fra tre donne, che un equivoco estremo trasforma da rintanato Casanova di paese in grottesco eroe fascista ne La spartizione del 1964; Anselmo Bordigoni, il gigante buono che ne Il balordo (1967) insegue il suo sogno di musicista nella torpida e sorda provincia durante la guerra; Temistocle Mario Orimbelli, che rivela la vita peccaminosa di una nobile villa sul lago e ne è mortalmente travolto, ne La stanza del vescovo (1976); o ancora Caterina, che ne Una spina nel cuore attraversa un’infuocata stagione di passioni nel modesto albergo Metropole, in paese, dove si muove un po’ di vita intorno a qualche tavolo verde. E tutti gli altri protagonisti, ne I giovedì della signora Giulia (1970), ne Il pretore di Cuvio (1973) o Il cappotto di Astrakan (1978), per citare i suoi titoli più noti.
Sono le zone dell’esistenza «dominate dalla necessità», come le descrisse lo stesso Chiara in un bel brano citato nella monografia di Della Porta Raffo (dal «Corriere del Ticino» del 1975). «Altri prima di me avevano capito le stesse cose col mezzo della creazione artistica», scrive Chiara, già divenuto scrittore famoso e notissimo elzevirista del «Corriere». E aggiunge una nota acuta: «Con gli uomini che rappresentano l’arte e la cultura del nostro tempo ho viaggiato nello stesso treno ma in un’altra carrozza». Cacciato dalle elementari e dal collegio, bighellone, giocatore, diventato garzone e lavorante, poi aiutante nella cancelleria della pretura di Pontebba e poi di Cividale, in provincia di Udine, e solo tardi approdato alla letteratura, è invece proprio da questo viaggiare «in un’altra carrozza», lontano dalle accademie e vicino alla vita, che Piero Chiara ottiene il materiale inesauribile della sua produzione.
Perché accanto al disvelamento delle piccole vergogne di provincia, al pettegolezzo e alle storie piccanti che piacquero al cinema, Chiara ha raccontato la malinconia profonda di una generazione, i giovani del tempo della guerra e dell’immediato Dopoguerra, che in quell’«altra carrozza» si è scoperta emarginata e incapace di fuggire. E ha cominciato a raccontarsi.