Assumiamo subito i giovani medici e scompariranno le liste d’attesa
È la sola riforma possibile Nei nostri ospedali l’età media è di 55 anni: in un decennio ne serviranno almeno ottantamila
Fino alla metà del Novecento in Inghilterra morivano ancora tanti bambini (di malattie infettive soprattutto) ma anche uomini, alla soglia della pensione dopo una vita di lavori pesanti. La risposta dei politici è stata quella di istituire il Servizio sanitario nazionale, era il 1948. Trent’anni dopo l’abbiamo fatto anche noi: «Il governo garantisce a tutti di potersi curare indipendentemente dalle condizioni economiche e dal ceto sociale, i soldi vengono dalle tasse che ciascuno paga in base al reddito». È la cosa più preziosa che abbiamo e non costa nemmeno tanto.
Per curarci spendiamo in media 2.600 euro all’anno, meno della Francia che ne spende quasi 3.500 e della Germania che arriva a 3.700, per non parlare degli Stati Uniti. A noi sembra normale che se uno è malato possa avere un trapianto di cuore o di fegato e le cure più avanzate per la leucemia o il cancro del colon senza spendere nulla, non è così. In molte parti del mondo avere qualcuno malato in famiglia significa indebitarsi e se la malattia è grave perdere tutto. Ma il nostro Servizio sanitario oggi è davvero «universale e solidale» come avrebbe voluto la legge 833 del ‘78? Sì, ma solo un po’. Succede che chi può pagare abbia tutto e subito, gli altri certe volte aspettano. Per i piccoli disturbi non c’è problema, ma se uno ha un tumore sono guai. Questa di tutte le cose da sistemare — e dopo quasi quarant’anni è logico che ce ne siano — è forse la più importante, se no che Servizio sanitario nazionale è? E così adesso c’è chi propone la quarta riforma (dopo quelle del ‘78, del ‘92 e del ‘99) «la riforma di ciò che non si è mai riformato e che al contrario si sarebbe dovuto riformare».
C’è qualcosa di buono in quella proposta ma il rischio che anche la quarta riforma finisca per enunciare principi a cui potrebbe non seguire niente è molto alto. «Rimuovere sul serio le diseconomie profonde», cosa vuol dire in pratica? Per non parlare di «adeguarsi al cambiamento» e «ripensare le prassi e gli apparati concettuali della medicina». Una cosa invece la si potrebbe fare subito, una sola, semplicissima: adoperarsi perché i giovani dopo che si sono laureati in medicina e hanno frequentato le scuole di specialità possano restare nei nostri ospedali, nelle nostre cliniche universitarie e negli istituti di ricerca. Ma non solo qualcuno, tutti. E lo si deve fare adesso.
I nostri ospedali hanno ormai medici ultra cinquantenni (l’età media è intorno ai 55 anni, la più alta d’Europa), 80.000 di loro nel giro di dieci anni dovranno lasciare, non c’è un minuto da perdere, se no tante competenze che fanno grandi certi nostri ospedali scompariranno. Non solo, ma se non trovano lavoro da noi i nostri giovani più bravi vanno all’estero, in questo momento ce ne sono 3.000 solo nel Regno Unito (il problema di sostituire i medici che vanno in pensione ce l’hanno anche loro). Abbiamo già avuto occasione di scrivere che questi ragazzi — merito forse del test di ingresso a medicina che è riuscito a selezionare i più preparati e anche quelli più motivati — sono bravissimi. E non basta, per chi frequenta le scuole di specialità, le università e le Regioni stipulano un contratto di formazione con un salario piuttosto buono, questo rispetto al passato è un grande passo avanti. E dopo? Dopo più niente. Il contratto di formazione «non dà in alcun modo diritto all’accesso ai ruoli del Sevizio sanitario nazionale e dell’università e non determina l’instaurazione di alcun rapporto di lavoro». E allora? I più fortunati trovano un contratto libero-professionale in qualche ospedale che riesce a racimolare qualche soldo per loro, o qualche guardia in case di cura private, gli altri sono senza lavoro. Non ce lo possiamo più permettere. Bisogna trovare il modo che questi ragazzi entrino gradualmente a far parte dell’organizzazione (all’inizio avranno contratti a termine, poi i più bravi li dovremmo assumere). A una condizione però: che siano disponibili a dedicarsi a tempo pieno al Servizio sanitario nazionale, quelli che conosco io ne sarebbero felici. Così si potrebbero fare interventi chirurgici anche al pomeriggio e Tac e risonanze magnetiche alla dieci di sera e il sabato e la domenica. Non ci sarebbero più liste d’attesa, si verrebbe incontro alle esigenze di lavoro di chi si rivolge a noi e si risparmierebbe perché i medici davvero bravi non sprecano. Chi dopo il periodo di formazione dimostrerà di non avere interesse per l’ospedale sarà medico di famiglia
ma avrà imparato a lavorare con gli specialisti e in questo modo si risolve anche la famosa «continuità assistenziale fra ospedale e territorio» di cui tutti parlano e che pochissimi sono riusciti a mettere in pratica. Nessuno in un ospedale pubblico si sentirebbe più dire «mi dispiace, non c’è posto». «Ci sarà domani?» «Non lo so, richiami», oppure «Per la mammografia c’è da aspettare sei mesi salvo che lei non paghi, in quel caso si fa subito».
Molti, pur di non aspettare pagano, e così i cittadini spendono di tasca loro in tutto 30 miliardi di euro all’anno dopo aver già pagato per la tassa della salute. Non è giusto, e non dovrebbe succedere più. Vuol dire abolire l’«intramoenia» e scoraggiare i medici dell’ospedale a esercitare la professione privata? Io direi di sì ma se proprio non lo si vuole fare basta introdurre una regola sola: «La professione privata la possiamo fare solo se nel nostro stesso reparto ci organizziamo in modo che chi paga aspetta di più (non di meno) di chi si affida al Servizio sanitario nazionale».
E la migliore garanzia perché tutto questo possa succedere davvero sono i giovani medici che hanno entusiasmo, motivazioni, competenze e che dedicheranno tutte le loro energie al Servizio sanitario nazionale. Insomma, la quarta riforma non la si fa con la «riduzione dei costi strutturali del sistema» o «incrementando le utilità» ma con i ragazzi delle scuole di specialità. Con loro la sanità si riforma da sola.
Niente più liste d’attesa Non possiamo permetterci di lasciarli senza lavoro, poco pagati o precari. E con loro avremmo gli organici per evitare le liste d’attesa