Mosca confessa: doping di massa
Le rivelazioni della responsabile delli controlli di Mosca sui trucchi di Sochi
Un doping di Stato all’insaputa dello Stato. Il New York Times rivela quella che Anna Antseliovich, dell’Agenzia Antidoping russa, definisce «una cospirazione istituzionalizzata». Ma senza che Putin sapesse. L’ammissione è su centinaia di atleti dopati tra l’Olimpiade di Vancouver 2010 fino a Sochi 2014.
Alexander Legkov, 33 anni fondista
«È stata una cospirazione istituzionalizzata». Quando Anna Antseliovich, direttore generale della Rusada (l’agenzia antidoping russa), risponde a Mosca alle domande di Rebecca Ruiz del New York Times, sa bene di avere di fronte una giornalista a caccia di scoop. Ma i ministri e gli alti vertici del governo non sono coinvolti, aggiunge. Un doping di Stato all’insaputa dello Stato.
Le prime crepe nel muro della Russia, travolta a ondate dallo scandalo scoperchiato dal rapporto McLaren, si aprono nella fronte alta di questa burocrate «facente funzioni di» dopo il terremoto: morto l’ex direttore della Rusada Nikita Kamayev (infarto senza mai aver sofferto di cuore); morto anche il direttore precedente, Vyacheslav Sinev; scappato negli Usa Grigory Rodchenkov, ex n.1 del laboratorio di Mosca — quello del buco nel muro attraverso cui passavano provette positive da insabbiare o inquinare con sale grosso e caffè —, diventato talpa degli americani e della Wada, l’agenzia mondiale antidoping. Qualcuno, su quella poltrona che scotta, doveva sedersi: è toccato ad Anna, il pesce piccolo sacrificato per salvare la nomenklatura.
Putin non sapeva, l’ex ministro dello sport Vitaly Mutko (assurto a più alti incarichi) nemmeno. Vitaly Smirnov, 81 anni, membro anziano del Cio, è il grande vecchio mandato davanti ai taccuini roventi col mandato di non sbilanciarsi: «Abbiamo fatto molti errori. Ora dobbiamo capire le ragioni che spingono i giovani ad accettare di doparsi». Se di Maxim Vylegzhanin, 34 anni fondista ammissione di colpevolezza trattasi (il rapporto McLaren mette nel mirino 1000 atleti russi di 30 discipline, parte di un programma doping avviato dopo i deludenti Giochi di Vancouver 2010 e sviluppatosi fino al 2015 con il picco di Sochi 2014, l’Olimpiade di casa in cui la Russia — 13 ori, 11 argenti, 9 bronzi — non poteva fallire), il Cremlino ne è estraneo.
L’ultima deriva dello scandalo che ha portato al bando dell’atletica russa da Rio 2016 viaggia su due binari. Da un lato l’indagine sportiva del Cio — 28 russi di Sochi sotto inchiesta — e la sospensione di sei fondisti (tra cui l’oro nella 50 km Legkov) e quattro biathlete. Dall’altro il caso politico, che ieri ha fatto insorgere contro Alexey Petukhov, 33 anni fondista Evgeny Belov, 26 anni fondista LA PROVETTA Codice a 7 cifre Cappuccio di sicurezza Julia Ivanova, 31 anni fondista il Nyt gli alti vertici russi, che a passare per l’Impero del Male non ci stanno. «Parole estrapolate dal contesto — ha detto il portavoce del Cremlino Dimitri Peskov —, ne verificheremo l’attendibilità». «Titolo fuorviante» ha rincarato la dose il ministro dello sport Pavel Kolobkov.
Sarà, ma la crepa deve avere una ragione. Magari mettere le mani avanti di fronte all’ennesima ondata di fango in arrivo dai laboratori svizzeri che stanno rianalizzando le urine russe di Vancouver 2010 (ordine Cio sul filo della prescrizione) col concreto rischio di far raddoppiare i positivi e la portata dello scandalo. Ma c’è di più. Nella nuova lista delle sostanze proibite della Wada dal 1° gennaio 2017 è inserito finalmente in maniera esplicita l’arimistane, un potente ormone rintracciato decine di volte