Due anni sotto l’Isis
Sono scappati a piedi. Qualcuno ha visto uccidere il padre, qualcuno ha pagato il riscatto per salvarlo. Sette ragazzi dai 14 ai 19 anni raccontano la vita nel Califfato
Safedin colora il suo disegno veloce, come se non avesse più tempo. Ha 14 anni ma ne dimostra dieci. In testa ha un cappellino di lana nera con il logo del Barcellona. «Gli ultimi due anni ho vissuto a Mosul Est sotto il controllo dei miliziani di Isis», racconta seduto per terra in una tenda dell’Unhcr. Fa freddo nel fango di Hansansham, campo profughi aperto in fretta e furia dopo l’inizio dell’offensiva di Mosul e già pieno fino all’orlo.
Quando i miliziani dello Stato Islamico nel 2014 sono entrati in città, Safedin era poco più di un bambino. Ha sentito le grida dei vicini mentre venivano a sapere che si erano portati via le figlie perché ogni mujaheddin ha diritto a prendersi almeno quattro ragazze. Ha tremato, per strada, ogni volta che è passato vicino a quegli uomini con il passamontagna nero, fermi ai checkpoint sui ponti della città. «Un giorno quattro di loro sono arrivati a casa, hanno trascinato via mio padre perché si era rifiutato di lavorare con loro», ricorda. «Pensavamo che lo avessero ammazzato. Invece, dopo tre mesi, sono tornati e ci hanno chiesto duemila dollari per liberarlo». Safedin non va più a scuola, da tempo. A Mosul, di giorno ha lavorato in un cantiere. La sera ha fatto il commesso per pagare il riscatto del padre.
Agli inizi di novembre l’esercito iracheno sfonda la linea di Gogjali, Safedin e i suoi fratelli scappano. Per quattro giorni rimangono intrappolati tra il fuoco di Isis e quello dei militari di Bagdad. «Sparavano da tutte le parti, i miliziani di Isis non ci lasciavano passare per usarci come scudo». Poi la fuga, con i cadaveri lungo la strada, i chilometri a piedi di notte, fino ai camion dell’esercito iracheno, lasciandosi dietro tutto, ricordi compresi. Safedin finisce di colorare il suo disegno, mentre la coda per le latrine del campo si allunga e suo fratello arrotola la corda dell’aquilone intorno a una bottiglietta di plastica. Oggi è uno dei 52 mila minori sfuggiti all’Isis. Cosa vuole fare da grande? Un lampo passa veloce negli occhi, come una ferita. «Il soldato, come mio nonno».
Il sangue chiama sangue. Nel fango dei campi si lotta per impedire che Isis si infiltri tra gli sfollati. «La sfida più grande è evitare che questi giovani finiscano reclutati da qualche milizia sciita o sunnita», spiega Miriam Ambrosini, rappresentante paese di Terre des Hommes Italia, ong che opera in Iraq con numerosi progetti di protezione dell’infanzia e attività di supporto psico sociale. La violenza non è una novità per questi ragazzi. Facile, troppo facile, prendere in mano un fucile e vendicarsi di tutto il male che hanno visto. «I millennial iracheni sono nati che era iniziata la guerra contro Saddam, sono cresciuti mentre il conflitto continuava: la violenza è un minimo comune denominatore», sottolinea Rasha Al Aqeedi, nata a Mosul e ora ricercatrice dell’Al Mesbar Studies and Research Center di Dubai.
Una quarantina di chilometri più a Sud, a Debaga, un gruppo di ragazzi gioca a calcio. Sono sfollati in ottobre da Hawiga e dai villaggi intorno a Mosul. Non si arrabbiano quando l’educatore dice che devono interrompere la partita perché è ora di pulire le stanze. Sono partiti per primi, perché le famiglie preferiscono far scappare subito i figli maschi. «Quando sono arrivati, i miliziani di Isis erano gentili», dice a bassa voce Mousanna con i piedi gonfi di calli. «Poi, hanno iniziato a costringere i ragazzini a guardare le esecuzioni e i video di propaganda, hanno messo dei banchetti in giro per la città».
Duecento dollari per un passaggio sicuro. In tasca nemmeno una fotografia della madre, per evitare domande ai posti di blocco di Daesh. Mousanna e gli altri sono fuggiti senza guardarsi mai indietro. «Ho camminato 14 ore», racconta Himat, 15 anni. Il padre è morto davanti ai suoi occhi. «L’hanno ammazzato con un colpo in testa e ci hanno costretto a guardare, tra loro c’era anche un miliziano che parlava italiano. Poi si sono presi le mie sorelle, anche la più piccola», spiega.
Himat e Mousanna, grazie al progetto di Terre des Hommes per i minori non accompagnati del campo di Debaga, ora hanno un posto dove dormire, studiano inglese e possono parlare con uno psicologo. Fuori dal campo, però, non sanno dove andare. Non c’è lavoro. Solo una divisa da indossare.