Corriere della Sera

Ma come parla la città, ascoltiamo­la

Jean-Christophe Bailly, ovvero l’architettu­ra e i nostri spazi secondo un non-architetto

- di Vittorio Gregotti

Èmolto difficile per un architetto dimenticar­e, parlando di città, il punto di vista del fare che implica una responsabi­lità nei confronti di un contesto, della sua storia e del suo attuale stato che la nostra azione modifica (in qualche raro caso) creativame­nte. Proprio questo dovrebbe insegnarci che la storia è un elemento del quadro complessiv­o delle trasformaz­ioni e delle origini di quell’insediamen­to: anche se la modificazi­one prodotta è di piccola scala, anche se costruire quella parte, nel caso della grande città e peggio nella postmetrop­oli, può apparire insignific­ante, specie negli interventi fuori scala che avvengono per imitazione provincial­e nelle città medie e piccole.

Proprio per questo è di grande utilità leggere il libro di Jean-Christophe Bailly, La frase urbana (Bollati Boringhier­i), che non è scritto da un architetto ma da uno scrittore e filosofo che ama la città, che sa guardarla, percorrend­ola, visitandol­a, rilevandon­e i caratteri speciali, con lo sguardo colto di chi non solo ne conosce la letteratur­a ma anche i rapporti con l’antropogeo­grafia del paesaggio in cui è collocata.

Ma «Quali sono le frasi urbane che si scrivono oggi? Quale è o quale potrebbe esse la loro sintassi?», scrive l’autore nell’introduzio­ne del libro. Non è suo dovere darne una risposta ma le sue riflession­i sul tema sono convincent­i e molto articolate secondo i molti casi diversi, pur con le differenze di scala dimensiona­le tra le città, il loro tipo di insediamen­to territoria­le, il modo di costruirsi per parti, per aggiunte pianificat­e o per ampliament­o naturale. Questo anche la sua città di Parigi, di cui descrive la relazione tra le parti, ricorda la trasformaz­ione haussmanni­ana, la continuità di Rue de Rivoli e l’insieme, che «è una gigantesca ripetizion­e di varianti». Ma le sue osservazio­ni descrivono anche i diversi materiali con cui la città è composta, le perturbazi­oni che ne hanno modificato i linguaggi facendone un deposito di immagini sovrappost­e, i cambiament­i di scala, la diversa giurisdizi­one dei suoi amministra­tori, i doveri verso la memoria e i suoi strappi monumental­i e abusivi.

Ma forse, scrive, «il dovere della memoria applicato alla città è una catastrofe» che però si presenta, di fronte all’occasione di cambiament­o o di sviluppo, talvolta mascherato dal semplice lifting (o restauro) delle facciate o, invece, da una solida relazione tra monumento e tessuto, tanto da definire «collezione di trofei» il Plan Voisin di Le Corbusier (anche se non sono d’accordo con le sue aspirazion­i nei confronti del Movimento Moderno).

Per chi passeggi di notte anche le luci sono un elemento importante dell’insediamen­to urbano perché «la città è tutto e per tutti uno spazio di rappresent­azione», anche se i suoi modi di presentare l’immagine oggi sono quelli del cinematogr­afo della television­e e assai meno direttamen­te quelli della pittura e del teatro o della letteratur­a come nei passage benjaminia­ni. Per Bailly (pag. 102) «è la città che detta all’architettu­ra il testo che il passante leggerà», scrive citando il caso di Santa Maria della Pace di Pietro da Cortona.

Naturalmen­te anch’io come Bailly sono lontano dall’idea di zoning, nata negli anni Trenta per evitare i pericoli delle industrie ma responsabi­le oggi dell’assenza di mescolanza nell’idea di città e dell’orribile, grande e separato sviluppo delle periferie ma di questo si è discusso al Congresso internazio­nale di architettu­ra moderna (Ciam) di Hoddesdon già sessant’anni or sono.

Il tema delle periferie è affrontato nel capitolo Fine del quartiere dormitorio con passione e capacità esemplare di comprensio­ne profonda delle difficoltà dell’impresa nella differenza dei casi, ma anche con suggerimen­ti assai più ragionevol­i di quelli forniti da molti architetti e urbanisti. Allo stesso modo Bailly affronta il tema dell’utopia sia tecnica che politica cercando di sottrarsi alla sua interpreta­zione di ordine finito senza mutamenti futuri. Un’utopia riconoscib­ile anche nella porta socchiusa della «rotonda», punto di fuga del celebre dipinto della Città ideale conservato a Urbino.

In una conferenza del 2000 Bailly parla invece «dell’esistente» come materiale urbano con cui si misura ogni architetto, come materiale con cui ogni nuovo urbano e territoria­le deve misurarsi. Tutte le città sono per lui un accumulo di segni e dimensioni, di «parole» prima che di linguaggi o, meglio, combinazio­ne di flussi e di singolarit­à. Il loro unico modulor e il loro passato. È solo con la civiltà industrial­e che la città si integra con il mondo e poi rovinosame­nte con lo sviluppo della comunicazi­one di massa che ne dissolvono i contorni.

Un capitolo del libro è dedicato alla complicata ma insopprimi­bile relazione che l’architettu­ra, più delle altre arti, ha con la politica. Una relazione di cui, io dico, la politica è uno dei materiali che il progetto deve dominare, una relazione naturale negli insediamen­ti primitivi che però si differenzi­a nell’organizzar­si politico della società mentre l’architettu­ra spontanea o popolare mantiene in alcune condizioni la propria identità, almeno sino a quando esiste un’identità di classe sociale che è oggi in via di sparizione. Importante resta però la presa di coscienza della sua storia per un’architettu­ra democratic­a delle città.

Il penultimo capitolo, dal titolo Per un’architettu­ra integrata, è forse, per me, il più importante del libro e contiene giudizi e proposte per quanto riguarda l’architettu­ra del moderno e il suo confuso stato attuale. Certamente non si tratta di giudizi e prospettiv­e tutte condivisib­ili ma è comunque animata da un autentico interesse per la relazione tra architettu­ra e città. Anche per quanto riguarda questo libro il centro dei suoi scritti è ciò che non si può cancellare se si vuole chiamare «città» un insediamen­to. Ciò che è importante è la grande qualità del racconto di Bailly, che offre un’occasione proprio a chi non è architetto di riflettere sulle qualità struttural­i della città e sulle sue possibilit­à di renderle migliori: senza tradire la complessit­à della loro natura ma sempliceme­nte amandole.

Il libro I centri abitati sono un accumulo di segni e di dimensioni. E anche la politica è materiale da costruzion­e

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