Ma come parla la città, ascoltiamola
Jean-Christophe Bailly, ovvero l’architettura e i nostri spazi secondo un non-architetto
Èmolto difficile per un architetto dimenticare, parlando di città, il punto di vista del fare che implica una responsabilità nei confronti di un contesto, della sua storia e del suo attuale stato che la nostra azione modifica (in qualche raro caso) creativamente. Proprio questo dovrebbe insegnarci che la storia è un elemento del quadro complessivo delle trasformazioni e delle origini di quell’insediamento: anche se la modificazione prodotta è di piccola scala, anche se costruire quella parte, nel caso della grande città e peggio nella postmetropoli, può apparire insignificante, specie negli interventi fuori scala che avvengono per imitazione provinciale nelle città medie e piccole.
Proprio per questo è di grande utilità leggere il libro di Jean-Christophe Bailly, La frase urbana (Bollati Boringhieri), che non è scritto da un architetto ma da uno scrittore e filosofo che ama la città, che sa guardarla, percorrendola, visitandola, rilevandone i caratteri speciali, con lo sguardo colto di chi non solo ne conosce la letteratura ma anche i rapporti con l’antropogeografia del paesaggio in cui è collocata.
Ma «Quali sono le frasi urbane che si scrivono oggi? Quale è o quale potrebbe esse la loro sintassi?», scrive l’autore nell’introduzione del libro. Non è suo dovere darne una risposta ma le sue riflessioni sul tema sono convincenti e molto articolate secondo i molti casi diversi, pur con le differenze di scala dimensionale tra le città, il loro tipo di insediamento territoriale, il modo di costruirsi per parti, per aggiunte pianificate o per ampliamento naturale. Questo anche la sua città di Parigi, di cui descrive la relazione tra le parti, ricorda la trasformazione haussmanniana, la continuità di Rue de Rivoli e l’insieme, che «è una gigantesca ripetizione di varianti». Ma le sue osservazioni descrivono anche i diversi materiali con cui la città è composta, le perturbazioni che ne hanno modificato i linguaggi facendone un deposito di immagini sovrapposte, i cambiamenti di scala, la diversa giurisdizione dei suoi amministratori, i doveri verso la memoria e i suoi strappi monumentali e abusivi.
Ma forse, scrive, «il dovere della memoria applicato alla città è una catastrofe» che però si presenta, di fronte all’occasione di cambiamento o di sviluppo, talvolta mascherato dal semplice lifting (o restauro) delle facciate o, invece, da una solida relazione tra monumento e tessuto, tanto da definire «collezione di trofei» il Plan Voisin di Le Corbusier (anche se non sono d’accordo con le sue aspirazioni nei confronti del Movimento Moderno).
Per chi passeggi di notte anche le luci sono un elemento importante dell’insediamento urbano perché «la città è tutto e per tutti uno spazio di rappresentazione», anche se i suoi modi di presentare l’immagine oggi sono quelli del cinematografo della televisione e assai meno direttamente quelli della pittura e del teatro o della letteratura come nei passage benjaminiani. Per Bailly (pag. 102) «è la città che detta all’architettura il testo che il passante leggerà», scrive citando il caso di Santa Maria della Pace di Pietro da Cortona.
Naturalmente anch’io come Bailly sono lontano dall’idea di zoning, nata negli anni Trenta per evitare i pericoli delle industrie ma responsabile oggi dell’assenza di mescolanza nell’idea di città e dell’orribile, grande e separato sviluppo delle periferie ma di questo si è discusso al Congresso internazionale di architettura moderna (Ciam) di Hoddesdon già sessant’anni or sono.
Il tema delle periferie è affrontato nel capitolo Fine del quartiere dormitorio con passione e capacità esemplare di comprensione profonda delle difficoltà dell’impresa nella differenza dei casi, ma anche con suggerimenti assai più ragionevoli di quelli forniti da molti architetti e urbanisti. Allo stesso modo Bailly affronta il tema dell’utopia sia tecnica che politica cercando di sottrarsi alla sua interpretazione di ordine finito senza mutamenti futuri. Un’utopia riconoscibile anche nella porta socchiusa della «rotonda», punto di fuga del celebre dipinto della Città ideale conservato a Urbino.
In una conferenza del 2000 Bailly parla invece «dell’esistente» come materiale urbano con cui si misura ogni architetto, come materiale con cui ogni nuovo urbano e territoriale deve misurarsi. Tutte le città sono per lui un accumulo di segni e dimensioni, di «parole» prima che di linguaggi o, meglio, combinazione di flussi e di singolarità. Il loro unico modulor e il loro passato. È solo con la civiltà industriale che la città si integra con il mondo e poi rovinosamente con lo sviluppo della comunicazione di massa che ne dissolvono i contorni.
Un capitolo del libro è dedicato alla complicata ma insopprimibile relazione che l’architettura, più delle altre arti, ha con la politica. Una relazione di cui, io dico, la politica è uno dei materiali che il progetto deve dominare, una relazione naturale negli insediamenti primitivi che però si differenzia nell’organizzarsi politico della società mentre l’architettura spontanea o popolare mantiene in alcune condizioni la propria identità, almeno sino a quando esiste un’identità di classe sociale che è oggi in via di sparizione. Importante resta però la presa di coscienza della sua storia per un’architettura democratica delle città.
Il penultimo capitolo, dal titolo Per un’architettura integrata, è forse, per me, il più importante del libro e contiene giudizi e proposte per quanto riguarda l’architettura del moderno e il suo confuso stato attuale. Certamente non si tratta di giudizi e prospettive tutte condivisibili ma è comunque animata da un autentico interesse per la relazione tra architettura e città. Anche per quanto riguarda questo libro il centro dei suoi scritti è ciò che non si può cancellare se si vuole chiamare «città» un insediamento. Ciò che è importante è la grande qualità del racconto di Bailly, che offre un’occasione proprio a chi non è architetto di riflettere sulle qualità strutturali della città e sulle sue possibilità di renderle migliori: senza tradire la complessità della loro natura ma semplicemente amandole.
Il libro I centri abitati sono un accumulo di segni e di dimensioni. E anche la politica è materiale da costruzione