Le favole vere di Mauro Corona «La natura ha le sue regole»
Un montanaro ruvido ma consapevole, ormai praticamente un’icona Così un inventore di storie e di silenzi racconta di boschi per dire di noi
Personaggio Nato in Trentino, vive in Friuli tra le montagne del Vajont. E la gente lo ferma per i selfie
Esiste la forte possibilità, accidenti al suo caratteraccio, di cominciare con una cosa che lo farà arrabbiare. Ma tocca di correre il rischio perché forse è un po’ il nocciolo, il resto è tutta una conseguenza. E in fondo è semplice, succede poche volte in questa misura ma quando succede non ci si può far niente: alla fine il principale motivo per cui i lettori di Mauro Corona leggono e amano i libri di Mauro Corona è Mauro Corona.
Cioè d’accordo, sono i libri, ci mancherebbe. Ma soprattutto è il fatto che li ha scritti lui. E questo, attenzione, nel suo caso non è un motivo di ordine banalmente biografico. No. Qui è proprio un motivo letterario e stilistico. Più facile da intuire che da spiegare, in effetti. Ha a che vedere con la verità. Non è poco. Ma se è così bisogna almeno provarci, a spiegarlo.
Allora ricordiamo — anche a chi per esempio rammentasse
benissimo il Premio Bancarella che nel 2011 lo consacra definitivamente scrittore per La fine del mondo storto: un titolo che come molti suoi altri è già una piccola poesia in sé — che Corona non era partito come scrittore. Classe ‘50, leone (e cosa sennò), nato a Baselga di Piné in Trentino per tornare ancora ragazzo a Erto del Friuli, il paese di famiglia dove vive tuttora e che sarebbe rimasto per sempre noto solo ai suoi abitanti se i duemila morti del Vajont non lo avessero reso famoso nel ‘63, Corona era uno di quei soggetti che a leggerne le note col senno di poi te li immagini già con la barba sin da bambini. Adesso la sua faccia è un’icona, quando scende in pianura a presentare un libro — l’ultima volta a Milano poco più di un mese fa per BookCity — la gente lo riconosce da lontano e lo ferma per un selfie. Ma ti vien da pensare che venisse segnato a dito già quando scappava dal collegio dei salesiani, quando seguiva il padre a caccia nei boschi, quando a tredici anni scalava il Monte Duranno, quando stava i pomeriggi guardando il nonno intagliare il legno, quando la sua indisciplina gli regalava un mese di consegna da militare. Non uno comodo insomma. Però una spugna. Di ogni esperienza assorbe l’essenza e la moltiplica: non sarà ancora uno scrittore ma i preti e la sua indole ne fanno da subito un divoratore di libri; la passione per la montagna ne fa uno scalatore e apritore di vie dalle Dolomiti a mezzo mondo; le mani del nonno, e più tardi le cave di marmo in cui lavorerà, diventano amore per la materia da scolpire, pietra o legno che sia. Quando comincerà a scrivere tratterà allo stesso modo le parole: roba che trova forma col togliere, non con l’aggiungere.
E la poetica di Corona, in sostanza, sta tutta qui: la natura ha le sue regole, per vivere basterebbero quelle, quando gli uomini arrivano a metterci del loro è il Vajont. Ecologico, esistenziale, morale. Il punto è che se lo dice un altro giri pagina e dici Vabbé l’ho già sentita. Fosse anche il guru degli ecologisti. E anzi non parlategliene, di certi ecologisti: nel suo libro ultimo La via del sole, dedicato a un tizio che pur di vedere il sole più a lungo rade al suolo le montagne, ne ha anche per uno di loro e con un po’ di intuito si riesce pure a capire chi. Ma se quella stessa cosa la scrive Corona ci credi. Magari ti ci commuovi anche.
Perché Corona è certamente un personaggio, finché si vuole: è quello che da anni sverna da solo nella sua baita dove arrivi solo a piedi e ti ci vuole mezza giornata, è quello con la faccia ispida e gli scarponi infangati anche in tv, quello che con lo stesso trasporto ti parla di Pessoa e di bracconaggio, rabbioso come quando parla «dello Stato che viene a romperti i coglioni a morte se vuoi fare una tettoia per la legna ma se sbanchi mezza montagna per metterci una funivia ti dà anche i soldi per farlo», e se un giorno all’improvviso ti arrivasse a cena in giacca e cravatta sarebbe come vedere D’Artagnan che fa il surf, un assurdo. Solo che è un personaggio vero. O meglio, chi lo sa se è vero, nella realtà può saperlo solo lui, come ciascuno di noi: ma appare come vero. È capace di dire una cosa e un attimo dopo il suo contrario. O quasi. Ma capisci che ci crede. È quella la sua forza.
Eppure quello che lo rende credibile, ecco la cosa che si diceva all’inizio, è la verità del- la sua scrittura. Corona scrive favole. Storie di boschi, di torrenti, di neve, di animali. Con titoli che già da soli sembrano poesie di una riga, tipo Come sasso nella corrente o La voce degli uomini freddi: «Forse ce l’ho fatta a uscire dall’inferno», dirà di sé quando quest’ultimo gli varrà il premio Rigoni Stern. E lo stile delle sue favole si avvicina molto a quel «sublime dal basso» che come categoria letteraria stava nel fanciullino di Pascoli ma che poi è quello delle parabole, dal figliol prodigo in giù: «Un uomo aveva due figli...». C’era una volta: ma lo sappiamo che sta parlando di noi. Niente parole di troppo. È tutto molto semplice, come è semplice un cerchio. Così i libri di Corona funzionano perché li scrive Corona. Ma Corona è Corona, anche, proprio perché scrive così.