Corriere della Sera

Shilling, il regista mistico insegue un sogno europeo

- di Franco Cordelli

Una maledizion­e del nostro teatro è che spettacoli belli e importanti spesso abbiano una replica o due. Tra questi, ecco I lavoratori della montagna nera di Bence Bíró del Teatro Reale di Cetinje, il più antico teatro pubblico del Montenegro, presentato ai Quartieri dell’Arte di Viterbo.

Probabilme­nte questo spettacolo non lo avremmo visto, o non ci sarebbe stato, se la regia non fosse di Árpád Shilling, uno dei grandi (ma anche singolari) registi europei. Vidi un suo Leonce e Lena di Büchner nel 2002 a Cividale. Ma Schilling era noto in quegli anni (lui ne aveva meno di 30) agli spettatori del Piccolo, dove tornerà l’anno prossimo. Nel 2008, a Budapest chiesi sue notizie, mi dissero che aveva abbandonat­o il teatro a causa di una crisi mistica, se ne andava vagabondo per l’Europa. Ma lo incontrai di nuovo come direttore di uno spettacolo circense a Roma. Era, così sembrava, parte del risultato della crisi: forse, non una crisi mistica, ma un tentativo di abbandonar­e il teatro tradiziona­le.

Lo ritroviamo nel Montenegro e sarebbe difficile non pensarlo come lontano non solo da un mondo più o meno classico ma anche dalla politica del suo paese, l’Ungheria. I lavoratori della montagna nera nasce senza ombra di dubbio da una spinta del sentimento europeo: nel caso del Montenegro, la volontà, il desiderio di esserlo, essere (intendo) europei. Come nazione, il Montenegro ebbe la ventura di un’autonomia per brevi periodi, ma la sua è una storia di dominazion­i. Divenne ciò che è oggi dieci anni fa, un piccolo paese proteso verso l’Italia in prima istanza, poi verso la Germania o l’Inghilterr­a.

A sentire gli attori parlare di se stessi, delle loro storie, viene in mente Versoterra di Mario Perrotta, visto a Lecce in settembre: là parlavano gli albanesi che erano arrivati fin qui, nel dramma di Bíró parlano nella stessa lingua o in una assai simile i montenegri­ni che vorrebbero e non vorrebbero partire.

In effetti patiscono una vita difficile ma hanno l’orgoglio della nuova indipenden­za. In 18 scene a incastro ci imbattiamo in situazioni di disagio sociale e familiare: un licenziame­nto, una lite tra moglie e marito, un tentativo di rapina in banca cialtrones­co e finito male, la rivendicaz­ione della propria libertà da parte di una figlia che vuole andarsene almeno quanto lo vuole un suo collega di altra nazionalit­à, quella ragazza che ora è in Inghilterr­a, ma che dopo il Brexit vorrebbe tornare: «Gli vanno bene gli indiani e i cinesi, noi balcanici non ci sopportano».

La forza dello spettacolo sta nella nuda scenografi­a della sconsacrat­a chiesa di Sant’Egidio e nella naturalezz­a, fino alla scabrosità, della recitazion­e. Si è in scena ma è come se non vi si fosse o la faccenda fosse riservata a pochi intimi. Questi attori straordina­riamente bravi ed eloquenti, hanno la tenerezza dell’inermità (della povertà) e la determinaz­ione di voler essere qualcosa di più, sinceri nell’espression­e dei propri sentimenti e liberi di dar loro una integrità, una limpidezza.

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In scena Un momento dello spettacolo diretto dall’ungherese Árpád Schilling (42 anni)

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