I TORMENTI DI UN PAESE
La Turchia, gigante musulmano adagiato fra due continenti e frontiera fra due mondi, è nel caos. Non soltanto per la strage della scorsa notte al club Reina, ritrovo della Istanbul laica e secolare che guarda all’Europa, quanto per la facilità con cui i terroristi sono riusciti a entrare in un locale fra i più noti seminando la morte. Forse riproponendo nella realtà le immagini televisive di un film di successo, trasmesso recentemente nel Paese.
Èil nuovo capitolo, purtroppo annunciato, di una guerra che continua e che ormai è concentrata sulla Turchia, crocevia strategico, geopolitico, energetico, e ormai punto di equilibrio (o di squilibrio) fra Ovest ed Est, fra Europa e Paesi che si affacciano sulla sponda Sud del Mediterraneo, fra Occidente e mondo arabo. Pare chiaro che il Paese sta subendo i contraccolpi di scelte politiche avventate poi radicalmente corrette in corsa, lasciando scorie sociali e politiche difficili da cancellare.
Le modalità del feroce attentato, che ripropone lo schema della strage del Bataclan di Parigi, sono più evidenti di una rivendicazione, che prima o poi arriverà. La firma, inequivocabile, è quella dell’Isis e dei suoi alleati jihadisti più feroci. Se infatti l’obiettivo è la folla, i civili, con i rappresentanti delle istituzioni ritenuti effetti collaterali, non vi sono dubbi sulle responsabilità. Diverso sarebbe se i terroristi avessero colpito poliziotti, militari, centri istituzionali, trasformando in effetti collaterali i civili che si trovavano casualmente sulla direttrice dell’attacco. In questo caso sarebbe inevitabile allargare il fronte dei sospetti all’estremismo curdo (Pkk e altre sigle) o ai gruppi più fanatici della sinistra extraparlamentare turca.
Le ragioni di quest’ondata di ferocia potrebbero essere alimentate dall’estero, come sostiene il presidente Recep Tayyip Erdogan. Ipotesi credibile, anche perché la Turchia è diventata rifugio di milioni di profughi, la maggior parte dei quali giunti dalla Siria. Tuttavia
vi sono anche ragioni legate all’altalenante linea politica del governo, guidato dal partito islamico Akp, acronimo di Giustizia e Sviluppo. Fino a un anno fa o poco meno, la Turchia aveva un atteggiamento abbastanza ambiguo e sicuramente opaco. Pur di indebolire il presidente siriano Bashar Assad, Erdogan era stato pronto a sostenere tutte le opposizioni siriane in armi. I tir, scortati da agenti dei servizi segreti e diretti nel Paese confinante, trasportavano armi pesanti e leggere che finivano anche ai jihadisti (Isis e Al Nusra), come documentato da immagini non smentibili. Immagini finite in Rete e costate carcere e punizioni varie a giornalisti, agenti, poliziotti e magistrati.
Il problema è che dopo l’abbattimento di un cacciabombardiere russo troppo curioso, che forse aveva documentato il traffico di petrolio tra Turchia e Isis, Erdogan e il suo governo hanno virato di 180 gradi: amicizia con Putin, che significa dipendenza dal Cremlino e sostegno alla strategia russa in Medio Oriente; quasi amicizia e molta comprensione per Assad; mano tesa al presidente egiziano Al Sisi, dopo aver parteggiato platealmente con il fratello musulmano Mohammed Morsi. E soprattutto, impegno della Turchia a partecipare lealmente alla campagna internazionale contro il terrorismo, e attivamente alla stabilizzazione della Siria, come l’accordo fra Mosca, Ankara e Teheran ha sancito.
È chiaro che Erdogan, deciso a riconquistare il terreno perduto, è pronto a pagare per i propri errori, perché la posta è fondamentale non soltanto per il suo futuro politico e per quello del suo Paese, ma per l’intera regione; per gli interessi della Nato, di cui la Turchia fa parte, e per quelli di Mosca. Ecco perché l’attentato di Istanbul era prevedibile, e probabilmente non sarà l’ultimo.
Contesto Si è trattato del nuovo capitolo, purtroppo annunciato, di una guerra che continuerà