Corriere della Sera

I TORMENTI DI UN PAESE

- Di Antonio Ferrari

La Turchia, gigante musulmano adagiato fra due continenti e frontiera fra due mondi, è nel caos. Non soltanto per la strage della scorsa notte al club Reina, ritrovo della Istanbul laica e secolare che guarda all’Europa, quanto per la facilità con cui i terroristi sono riusciti a entrare in un locale fra i più noti seminando la morte. Forse riproponen­do nella realtà le immagini televisive di un film di successo, trasmesso recentemen­te nel Paese.

Èil nuovo capitolo, purtroppo annunciato, di una guerra che continua e che ormai è concentrat­a sulla Turchia, crocevia strategico, geopolitic­o, energetico, e ormai punto di equilibrio (o di squilibrio) fra Ovest ed Est, fra Europa e Paesi che si affacciano sulla sponda Sud del Mediterran­eo, fra Occidente e mondo arabo. Pare chiaro che il Paese sta subendo i contraccol­pi di scelte politiche avventate poi radicalmen­te corrette in corsa, lasciando scorie sociali e politiche difficili da cancellare.

Le modalità del feroce attentato, che ripropone lo schema della strage del Bataclan di Parigi, sono più evidenti di una rivendicaz­ione, che prima o poi arriverà. La firma, inequivoca­bile, è quella dell’Isis e dei suoi alleati jihadisti più feroci. Se infatti l’obiettivo è la folla, i civili, con i rappresent­anti delle istituzion­i ritenuti effetti collateral­i, non vi sono dubbi sulle responsabi­lità. Diverso sarebbe se i terroristi avessero colpito poliziotti, militari, centri istituzion­ali, trasforman­do in effetti collateral­i i civili che si trovavano casualment­e sulla direttrice dell’attacco. In questo caso sarebbe inevitabil­e allargare il fronte dei sospetti all’estremismo curdo (Pkk e altre sigle) o ai gruppi più fanatici della sinistra extraparla­mentare turca.

Le ragioni di quest’ondata di ferocia potrebbero essere alimentate dall’estero, come sostiene il presidente Recep Tayyip Erdogan. Ipotesi credibile, anche perché la Turchia è diventata rifugio di milioni di profughi, la maggior parte dei quali giunti dalla Siria. Tuttavia

vi sono anche ragioni legate all’altalenant­e linea politica del governo, guidato dal partito islamico Akp, acronimo di Giustizia e Sviluppo. Fino a un anno fa o poco meno, la Turchia aveva un atteggiame­nto abbastanza ambiguo e sicurament­e opaco. Pur di indebolire il presidente siriano Bashar Assad, Erdogan era stato pronto a sostenere tutte le opposizion­i siriane in armi. I tir, scortati da agenti dei servizi segreti e diretti nel Paese confinante, trasportav­ano armi pesanti e leggere che finivano anche ai jihadisti (Isis e Al Nusra), come documentat­o da immagini non smentibili. Immagini finite in Rete e costate carcere e punizioni varie a giornalist­i, agenti, poliziotti e magistrati.

Il problema è che dopo l’abbattimen­to di un cacciabomb­ardiere russo troppo curioso, che forse aveva documentat­o il traffico di petrolio tra Turchia e Isis, Erdogan e il suo governo hanno virato di 180 gradi: amicizia con Putin, che significa dipendenza dal Cremlino e sostegno alla strategia russa in Medio Oriente; quasi amicizia e molta comprensio­ne per Assad; mano tesa al presidente egiziano Al Sisi, dopo aver parteggiat­o platealmen­te con il fratello musulmano Mohammed Morsi. E soprattutt­o, impegno della Turchia a partecipar­e lealmente alla campagna internazio­nale contro il terrorismo, e attivament­e alla stabilizza­zione della Siria, come l’accordo fra Mosca, Ankara e Teheran ha sancito.

È chiaro che Erdogan, deciso a riconquist­are il terreno perduto, è pronto a pagare per i propri errori, perché la posta è fondamenta­le non soltanto per il suo futuro politico e per quello del suo Paese, ma per l’intera regione; per gli interessi della Nato, di cui la Turchia fa parte, e per quelli di Mosca. Ecco perché l’attentato di Istanbul era prevedibil­e, e probabilme­nte non sarà l’ultimo.

Contesto Si è trattato del nuovo capitolo, purtroppo annunciato, di una guerra che continuerà

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