Perché quel cerbiatto ci emoziona
Di tutti i cartoni Disney, Bambi è unanimemente considerato il più triste e doloroso. La morte della madre, uccisa dal fucile dell’Uomo, è un trauma così grande che nemmeno il successivo incontro del giovane cerbiatto con il padre mai conosciuto riesce a lenire: è una mancanza che segna così profondamente il film (e il suo spettatore) da diventarne il marchio distintivo, quello che neppure il coniglietto Tippete, «rimbambinito» per l’innamoramento primaverile in una delle scene più divertenti del film, è capace di ribaltare. No, Bambi fa piangere e non è un caso se è uno dei cartoni meno citati (e amati) di tutta la produzione del padre di Topolino. Ma non si tratta di un’improvvisa esplosione di «sadismo». Per capirne le ragioni va ricordato che il film, uscito sugli schermi l’8 agosto 1942, era stato preparato quando si addensavano le nubi della Seconda guerra mondiale (allora ci volevano tre o quattro anni per disegnare a mano tutto un film) e che cervi e cerbiatti del romanzo di Felix Salten da cui il film è tratto si coloravano delle cupe ombre metaforiche che l’autore, ebreo ungherese, vi aveva messo. Ma probabilmente l’influenza più evidente — anche se forse inconscia — è quella del romanzo che nel 1938 aveva vinto il premio Pulitzer (diventando popolarissimo) e che aveva anche lui come protagonista un piccolo cerbiatto, quel Cucciolo di Marjorie Kinnan Rawlings che raccontava una storia altrettanto se non più crudele e dolorosa. In entrambe, i piccoli protagonisti a quattro zampe facevano i conti con la dura realtà, quella di un mondo dove le leggi della Natura e il potere degli Uomini non guardavano in faccia a niente. Troppo dolorose forse per un pubblico infantile ma non per quell’America che sulla «crudeltà» della Wilderness aveva costruito la propria storia e forgiato la propria pedagogia.