A Napoli (fino al 2 aprile) un’esposizione rilancia un artista «di corte» ingiustamente dimenticato Il futuro secondo Salvatore Fergola pittore (e cronista) dei Borbone
Può un artista rappresentare un’epoca? Certamente. L’artista si chiama Salvatore Fergola (Napoli 1796-1874) ed è stato l’ultimo «pittore di corte» sotto il regno dei Borbone (Francesco I e Ferdinando II), di cui ha testimoniato un periodo di splendore seguito dalla rovinosa caduta finale del 1861. Un pittore-cronista che, pur avendo seguito, all’inizio, il padre Luigi e il fratello Alessandro nel momento in cui questi gravitavano attorno alla Scuola di Posillipo — il gruppo di paesaggisti che seguiva l’olandese van Pitloo prima e Giacinto Gigante dopo — successivamente se ne stacca per seguire la propria strada.
Attratto dal tedesco Jakob Philipp Hackert (1737-1807) — anch’egli pittore di corte a Napoli, costretto ad abbandonare la città in seguito alla fuga di Ferdinando IV per l’invasione dei francesi — di cui viene considerato l’erede, Fergola si dedica al vedutismo. Naturalmente come pittore di corte deve sottostare alle richieste del sovrano. Se prima, infatti, pittura paesaggistica e pittura storica viaggiavano separate, l’intento di Ferdinando II è quello di conservare sì i paesaggi della capitale del Regno delle due Sicilie, ma di inserirvi avvenimenti di cronaca (soprattutto riguardo a taluni primati partenopei) considerati eventi «storici», per testimoniare il progressismo dei Borboni, anche se durante la Restaurazione.
Valgano per tutti l’Entrata in Napoli di Ferdinando I di Borbone avanti l’Orto botanico (1821) e La chiesa di Sant’Agostino parzialmente crollata nel terremoto di Melfi del 14 agosto 1851. Re Ferdinando II in visita ai terremotati (1851): paesaggi e cronache diventano tutt’uno. Fergola è attratto dalla modernità. Dipinge battute di caccia, manovre militari, tornei cavallereschi (con la sfilata di dame e cavalieri per entrare a palazzo), episodi della vita di corte, compresi i viaggi dei sovrani in Campania, Sicilia, Madrid, Parigi (al cui soggiorno presso il duca d’Orléans e la duchessa di Berry deve le grandi marine in tempesta, che richiamano quelle di Turner e Constable), ma anche L’inaugurazione della nuova strada di ferro eseguita in Napoli nell’ottobre 1839 (la prima in Italia: nove minuti di percorrenza, mentre la Vesuviana di oggi ne impiega dodici), oltre a quelle di Castellammare e di Torre Annunciata.
Ed ancora: il Ponte ferdinandeo sul Garigliano (1843) in metallo, il ponte di ferro sul Calore (le costruzioni in ferro di Gustave Eiffel verranno alcuni decenni dopo), il battello a vapore, il varo del vascello «Vesuvio», la benedizione del bacino di Napoli,
Salvatore «racconta» con la tavolozza col mestiere del grande cronista («Il Mattino» di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao vedrà la luce nel 1892). Nonostante tutto, l’artista viene dimenticato. Per molto tempo Napoli ha accantonato i Borbone e ciò che li ricordava. Ma non si può cancellare la storia. Viene sempre il tempo degli scandagli, delle rivalutazioni. E così si deve a Fernando Mazzocca e Luisa Martorelli la riscoperta — straordinaria la valenza scientifica — di questo protagonista della pittura napoletana dell’800, autore di opere di grande qualità.
Dopo il ritrovamento dei lavori, il restauro. E, adesso, la mostra Fergola, lo splendore di un regno alle Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano (sino al 2 aprile), che rientra nell’alveo di Intesa Sanpaolo: 63 dipinti dal 1818 al 1862, oltre a disegni e tavole litografiche (catalogo Marsilio). E questa è solo una piccola parte della produzione sterminata di Fergola. Cui si deve anche la fondazione di uno stabilimento litografico e di una editoria popolare illustrata (il Poliorama Pittoresco esce nel 1836).
Innovazioni tecnologiche, s’è detto, ma anche vedute di una Napoli che, terza città europea per popolazione — dopo Londra e Parigi — aveva una vita culturale intensissima, anche perché era fra le mete del Grand Tour. Artisti, scrittori, musicisti amavano specchiarsi nelle acque del Golfo. Leopardi trascorre gli ultimi quattro anni di vita e, proprio l’anno della fine (il 1837) compone La ginestra o il fiore del deserto. Rossini (1815-1822, che nel 1819 invita Niccolò Paganini) e Donizetti (1822-1938) sono i direttori artistici del San Carlo e il Teatro ospita la «prima» anche di opere di Bellini, Mercadante, Verdi ed altri.
Assieme a Mancinelli, nel 1854 Fergola dipinge il sipario del Parnaso. Adesso, a quasi un secolo e mezzo dalla morte, torna in auge. Già, tempus omnia medetur («il tempo è galantuomo»).