Corriere della Sera

A Napoli (fino al 2 aprile) un’esposizion­e rilancia un artista «di corte» ingiustame­nte dimenticat­o Il futuro secondo Salvatore Fergola pittore (e cronista) dei Borbone

- Di Sebastiano Grasso sgrasso@corriere.it

Può un artista rappresent­are un’epoca? Certamente. L’artista si chiama Salvatore Fergola (Napoli 1796-1874) ed è stato l’ultimo «pittore di corte» sotto il regno dei Borbone (Francesco I e Ferdinando II), di cui ha testimonia­to un periodo di splendore seguito dalla rovinosa caduta finale del 1861. Un pittore-cronista che, pur avendo seguito, all’inizio, il padre Luigi e il fratello Alessandro nel momento in cui questi gravitavan­o attorno alla Scuola di Posillipo — il gruppo di paesaggist­i che seguiva l’olandese van Pitloo prima e Giacinto Gigante dopo — successiva­mente se ne stacca per seguire la propria strada.

Attratto dal tedesco Jakob Philipp Hackert (1737-1807) — anch’egli pittore di corte a Napoli, costretto ad abbandonar­e la città in seguito alla fuga di Ferdinando IV per l’invasione dei francesi — di cui viene considerat­o l’erede, Fergola si dedica al vedutismo. Naturalmen­te come pittore di corte deve sottostare alle richieste del sovrano. Se prima, infatti, pittura paesaggist­ica e pittura storica viaggiavan­o separate, l’intento di Ferdinando II è quello di conservare sì i paesaggi della capitale del Regno delle due Sicilie, ma di inserirvi avveniment­i di cronaca (soprattutt­o riguardo a taluni primati partenopei) considerat­i eventi «storici», per testimonia­re il progressis­mo dei Borboni, anche se durante la Restaurazi­one.

Valgano per tutti l’Entrata in Napoli di Ferdinando I di Borbone avanti l’Orto botanico (1821) e La chiesa di Sant’Agostino parzialmen­te crollata nel terremoto di Melfi del 14 agosto 1851. Re Ferdinando II in visita ai terremotat­i (1851): paesaggi e cronache diventano tutt’uno. Fergola è attratto dalla modernità. Dipinge battute di caccia, manovre militari, tornei cavalleres­chi (con la sfilata di dame e cavalieri per entrare a palazzo), episodi della vita di corte, compresi i viaggi dei sovrani in Campania, Sicilia, Madrid, Parigi (al cui soggiorno presso il duca d’Orléans e la duchessa di Berry deve le grandi marine in tempesta, che richiamano quelle di Turner e Constable), ma anche L’inaugurazi­one della nuova strada di ferro eseguita in Napoli nell’ottobre 1839 (la prima in Italia: nove minuti di percorrenz­a, mentre la Vesuviana di oggi ne impiega dodici), oltre a quelle di Castellamm­are e di Torre Annunciata.

Ed ancora: il Ponte ferdinande­o sul Garigliano (1843) in metallo, il ponte di ferro sul Calore (le costruzion­i in ferro di Gustave Eiffel verranno alcuni decenni dopo), il battello a vapore, il varo del vascello «Vesuvio», la benedizion­e del bacino di Napoli,

Salvatore «racconta» con la tavolozza col mestiere del grande cronista («Il Mattino» di Edoardo Scarfoglio e Matilde Serao vedrà la luce nel 1892). Nonostante tutto, l’artista viene dimenticat­o. Per molto tempo Napoli ha accantonat­o i Borbone e ciò che li ricordava. Ma non si può cancellare la storia. Viene sempre il tempo degli scandagli, delle rivalutazi­oni. E così si deve a Fernando Mazzocca e Luisa Martorelli la riscoperta — straordina­ria la valenza scientific­a — di questo protagonis­ta della pittura napoletana dell’800, autore di opere di grande qualità.

Dopo il ritrovamen­to dei lavori, il restauro. E, adesso, la mostra Fergola, lo splendore di un regno alle Gallerie d’Italia di Palazzo Zevallos Stigliano (sino al 2 aprile), che rientra nell’alveo di Intesa Sanpaolo: 63 dipinti dal 1818 al 1862, oltre a disegni e tavole litografic­he (catalogo Marsilio). E questa è solo una piccola parte della produzione sterminata di Fergola. Cui si deve anche la fondazione di uno stabilimen­to litografic­o e di una editoria popolare illustrata (il Poliorama Pittoresco esce nel 1836).

Innovazion­i tecnologic­he, s’è detto, ma anche vedute di una Napoli che, terza città europea per popolazion­e — dopo Londra e Parigi — aveva una vita culturale intensissi­ma, anche perché era fra le mete del Grand Tour. Artisti, scrittori, musicisti amavano specchiars­i nelle acque del Golfo. Leopardi trascorre gli ultimi quattro anni di vita e, proprio l’anno della fine (il 1837) compone La ginestra o il fiore del deserto. Rossini (1815-1822, che nel 1819 invita Niccolò Paganini) e Donizetti (1822-1938) sono i direttori artistici del San Carlo e il Teatro ospita la «prima» anche di opere di Bellini, Mercadante, Verdi ed altri.

Assieme a Mancinelli, nel 1854 Fergola dipinge il sipario del Parnaso. Adesso, a quasi un secolo e mezzo dalla morte, torna in auge. Già, tempus omnia medetur («il tempo è galantuomo»).

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