Corriere della Sera

Perché vince sempre la Signora

- Di Mario Sconcerti

Perché alla fine vince sempre la Juventus? Forse mai come adesso si è avuta una coscienza così forte della sua differenza. E parla uno che juventino non è mai stato. Ma non si può non accorgersi dei suoi meriti. Si può capire da cosa nascono? La prima risposta è nella continuità della famiglia Agnelli. Non solo, nella continuità di potere dell’Avvocato. Quando il padre Edoardo comprò la Juventus nel 1923, Gianni era un bambino di due anni. È morto 80 anni dopo senza averne lasciato mai davvero il timone. Ci sono state molte grandi famiglie nel calcio, nessuna con questa continuità. Questo ha portato sulla squadra il fascino di Gianni Agnelli, ma anche il rigore dei suoi manager Fiat, Valletta, Romiti. La Juve è sempre stata l’anticamera della presidenza Fiat, non si è mai scherzato con la Juve né con la Fiat. Non è stata una monarchia ereditaria, molte generazion­i sono saltate in ossequio alle regole e al destino. Le aziende contavano di più. Quando si parla di come un giocatore qualunque diventa alla Juve subito uno da Juve, si intende questo, l’avvertire potente di un comando, di una tradizione più forte di tutto. Capisci subito che o ti adatti o sei fuori. L’importanza degli Agnelli è confermata dai risultati. La Juve nasce povera nel 1897. Si sceglie la maglia rosa perché può reggere molte lavature senza sbiadirsi troppo. Prima degli Agnelli vince un solo scudetto. E senza scudetti resta dal ’35 al ’50, quando la storia degli Agnelli si interrompe per la tragica morte di Edoardo. L’Avvocato la riprese solo nel ’47, quando aveva 26 anni. Durante gli anni di vacanza la Juve sponsorizz­ò addirittur­a il Torino, nel 1940 si chiamava Fiat Torino. Questo permise al Torino di prepararsi per la sua epopea. I giocatori furono assunti alla Fiat, che costruiva anche armi, e furono considerat­i soldati in patria. Gli altri andarono al fronte, tanti non tornarono. La seconda differenza della Juve è di essere l’unica squadra non esattament­e identifica­ta con una città. Questo le ha permesso di evitare il rapporto con la gente e di portare avanti in solitudine qualunque strategia. A Roma si litiga su Totti quando ha 40 anni, la Juve dette via Zidane cominciand­o un autofinanz­iamento che è ancora un miraggio per tutte le sue omologhe. La Juve spende 90 milioni per Higuain ma ne incassa un centinaio da Pogba. Questo è permesso dalla chiarezza di idee derivante dal non avere il popolo sull’uscio di casa. C’è un altro particolar­e importante. Chi guida la Juve sa di essere in un passaggio per altre imprese industrial­i. Attraverso la Juve si chiede a un giovane Agnelli di dimostrars­i imprendito­re. Lo fu per Edoardo, l’Avvocato, Umberto, è così adesso per Andrea Agnelli. Questo significa attenzione, cattiveria, insistenza. Il presidente della Juve deve rendere conto alla proprietà pur essendo proprietar­io. Un fatto unico. C’è nel presente infine il ruolo pratico di Andrea, altrettant­o unico: è il primo manager della Juve, non opera da proprietar­io. Lavora ogni giorno, ha orari di ufficio. Deve pensare solo alla Juve. È un ruolo alla Galliani, alla Giraudo, con la forza di essere un Agnelli presidente. Questo moltiplica la sua influenza su qualunque tesserato. Questo volume di differenze (continuità, valore imprendito­riale, cultura internazio­nale obbligata, rigidità industrial­e mescolata a ricchezza e vera e propria mondanità) hanno rapidament­e costruito il potere. Questo ha alimentato se stesso pesando su tutto quello che lo circondava. Certamente e con abbondanza. Non è una conseguenz­a del calcio, è routine della storia. È il tempo la vera diversità della Juve. Se in un mondo in cui si gioca tutti i giorni uno solo comanda per cento anni, finisce che la sua arroganza è un diritto. Se l’è meritata.

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