Corriere della Sera

«Ribalterò il rugby italiano»

«Per il Sei Nazioni non prometto vittorie, ma una squadra dura, che non regala nulla»

- Domenico Calcagno

La cosa più difficile per Conor O’Shea sarà convincere tutti quanti che la pazienza è una virtù e che per fare qualcosa di buono esiste un’unica strada: partire dall’inizio e aggiungere ogni giorno un pezzetto, senza scoraggiar­si se i conti non tornano subito. Non è uomo da proclami, da discorsi fiammeggia­nti l’irlandese di Limerick arrivato in Italia a maggio. Ama il suo lavoro («Ho la fortuna di essere pagato per fare quello che più mi piace»), è razionalme­nte ottimista, attentissi­mo al grosso e ai dettagli (la vittoria sul Sudafrica è iniziata con un caffè preso con Sergio Parisse a Parigi), completame­nte dedicato alla «missione» che si è scelto: «Costruire la miglior Nazionale di rugby di sempre». Vive a Sirmione, ha iscritto le figlie alla scuola internazio­nale di Verona, studia il nostro rugby e la nostra lingua e trova il tempo di andare in bicicletta: «Ho conosciuto un gruppo di ciclisti, quando posso vado con loro: parlo italiano e conosco il vostro Paese, che è fantastico».

Ha preso qualche altro caffè aspettando il Sei Nazioni?

«No, nessun caffè, ma conto i giorni che mancano al primo raduno, il 22 gennaio. Ho voglia di ritrovare il mio gruppo, di parlare con i giocatori, i veterani e i giovani. Abbiamo molto da fare».

Anche a Firenze, subito dopo aver battuto il Sudafrica, ha parlato di lavoro da fare, non di quello fatto.

«So benissimo che il rugby italiano ha fame di vittorie. Vincere piace, fa bene e porta nuove forze perché i ragazzi più giovani hanno bisogno di eroi per appassiona­rsi a uno sport. Ho visto cosa è successo con il Sudafrica, ma so anche che siamo all’inizio di un percorso. Può sembrare un paradosso, ma adesso, per noi, vincere non è la prima cosa».

Sicuro?

«Sicurissim­o». Si spieghi.

«In Italia ci sono passione, volontà, strutture e tanti ragazzi che vogliono giocare. Però ogni quattro anni si ricomincia da capo con un nuovo allenatore della Nazionale. Sarebbe più semplice, per me, pensare solo alla mia squadra, preoccupar­mi di vincere qualche partita e non incidere in profondità. Ma io sono venuto per cambiare il sistema, per liberare le potenziali­tà del rugby italiano».

Da dove si comincia?

«Dalla testa. Le sconfitte lasciano il segno, c’è chi si è assuefatto e gli avversari si sono convinti che contro l’Italia basti aspettare per portare a casa la partita. È un cerchio che va spezzato subito e la vittoria sul Sudafrica è stata importante per questo: ha fatto capire, a noi sopra tutti, che dobbiamo solo lavorare e avere fiducia.

Che possiamo farcela».

Sette giorni dopo il Sudafrica, però, è arrivata la sconfitta con Tonga.

«Ci sono rimasto male, ma non pensavo di avere risolto

tutto col Sudafrica e quindi non mi sono intristito più di tanto per Tonga. Quella partita avremmo dovuto chiuderla nel primo tempo, ma è inutile coltivare rimpianti».

Dopo 7 mesi e 6 partite il bilancio è positivo?

«Abbiamo fatto cose buone, ma dobbiamo fare di più e meglio. Le franchigie devono cominciare a vincere, dobbiamo lavorare di più e sapere per cosa stiamo lavorando».

Il 5 febbraio però si comincia con il Sei Nazioni, all’Olimpico arriva il Galles. Che Nazionale sarà?

«Una Nazionale che combatte per 80 minuti, che sa fare alla perfezione due, tre cose».

Parafrasan­do, difesa e contropied­e...

«Una casa solida deve avere fondamenta solide. Una squadra solida deve avere una grande difesa. Dobbiamo fare al meglio le cose che possiamo controllar­e, pensare al nostro gioco, non agli avversari o all’arbitro. Voglio una squadra dura, cattiva, che non regala nulla e contro la quale nessuno gioca volentieri. Questo è l’obiettivo».

Pronostici?

«No, alla squadra chiederò la prestazion­e. Poi, è chiaro, se si vince è molto meglio».

Non sarà un Sei Nazioni semplice: a novembre i nostri avversari hanno impression­ato.

«Sarà molto duro, tutte so-

Tecnologia Noi abbiamo il Tmo, il calcio avrà la Var, ma la moviola dovrebbero chiederla gli allenatori

no cresciute. L’Inghilterr­a non ha mai perso, l’Irlanda ha battuto gli All Blacks...».

Sarà anche il primo Torneo con i punti di bonus.

«Potrebbero essere una novità positiva: se perdi di 10 e manca poco alla fine, con il bonus hai una motivazion­e per continuare a lottare».

E ci sarà più attenzione ai placcaggi pericolosi. Il rugby non sta diventando troppo una questione di muscoli?

«Lo spazio per i giocatori tecnici ci sarà sempre. Penso a Barrett, Ford, ma anche ai nostri Canna e Violi. È giusto proteggerl­i. Più cartellini gialli e rossi? Va bene, se è necessario. Ma l’arbitraggi­o deve essere uniforme, deve esserci un unico metro».

Il rugby ha da anni il Tmo, la moviola in campo, ora il calcio utilizzerà la Var.

«Oggi su ogni partita ci sono molti soldi, avere certezze è una necessità. Il calcio ha risolto il problema del gol fantasma, ma la tecnologia non può controllar­e tutto. La moviola deve essere usata solo per i casi che possono cambiare la storia della partita. C’è poi un altro problema».

Prego.

«Nel football americano è l’allenatore che pensa di aver subito un torto a chiedere la moviola, non l’arbitro. Credo sia il sistema migliore: due chiamate a tempo fatte dall’allenatore o, nel rugby, dal capitano. Troppe interruzio­ni finirebber­o per rovinare il gioco».

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