I regali di ritorno
Rispediti o riportati nei negozi: così gli oggetti ricevuti e rifiutati fanno (anche) danni all’ambiente per le tonnellate di rifiuti prodotti In testa ai resi abiti e accessori
Prima dei saldi, prima di ricominciare a lavorare, prima del rientro a scuola. È questa la settimana del «ritorno», quando i regali che Babbo Natale con tanta fatica ha consegnato, infilandosi per comignoli fuligginosi e stretti, vengono rispediti al mittente. Con buona pace dell’inquinamento ambientale e della svalutazione economica (il valore diminuisce inevitabilmente lungo la tratta), per non dire dell’etichetta (riportare in negozio un dono non è il massimo della gratitudine verso chi ce lo ha fatto). Negli Stati Uniti hanno già individuato il giorno del picco, previsto il 5 gennaio, giusto per non interferire con
le solite faccende della Befana. È stato calcolato che in tutto saranno rimessi in viaggio prodotti per trenta miliardi di dollari, pari a 5,8 milioni di pacchi in movimento.
«L’impatto ambientale è devastante», ha spiegato al giornale economico online Quartz Tobin Moore, amministratore delegato di Optoro, compagnia che si occupa di rivendere i resi di produttori e rivenditori. «Il viavai degli articoli restituiti, solo negli Stati Uniti, genera in un anno quasi due milioni di tonnellate di rifiuti». Questo perché la metà dei pacchi non ritorna negli scaffali del negozio, perché nel viaggio A/R qualcuno si è rotto o si è ammaccato, oppure era stato scartato maldestramente e quindi non è più presentabile come nuovo. E poi resta il prodel blema degli imballaggi che fanno avanti e ‘ndré senza divertimento, soprattutto senza che nessuno si sia chiesto prima se fosse davvero necessario rispedirlo e quanto costasse farlo.
«Tempo fa avevo acquistato un servizio di bicchieri di vino su Amazon, perché gli stessi mi erano rimasti spaiati. Al momento della consegna mi sono accorta che uno era rotto e ho chiamato il servizio clienti: loro mi hanno detto di buttare via tutto il pacco perché me ne avrebbero rimandato uno nuovo. Alla fine ci ho guadagnato, perché mi sono ritrovata con undici pezzi al prezzo di sei». Il racconto di Chiara Campione, senior campaigner di Greenpeace e responsabile della campagna sui consumi e progetto Detox per l’eliminazione delle sostanze inquinanti pericolose dai tessuti dei vestiti, ci chiarisce una cosa: al venditore costa meno rimandare un prodotto nuovo e scordarsi del vecchio piuttosto che prendere un reso. Su dove andrà poi a finire l’articolo ammaccato, meglio non farsi domande.
In America i regali natalizi acquistati in Rete che poi tornano indietro sono il 9 per cento dei resi. Si rispediscono perlopiù abiti e accessori, seguiti da oggetti di elettronica, scarpe, indumenti sportivi, prodotti di bellezza e alimentari. L’impatto del commercio online, però, comincia a preoccupare le associazioni ambientaliste.
Enrico Fontana, direttore de La nuova ecologia, il magazine di Legambiente, fa riflettere su una immagine che tutti abbiamo avuto sotto gli occhi dopo il 25 dicembre: «I cassonetti dell’immondizia subito dopo le feste sono la prova che la sobrietà non esiste. Noi abbiamo realizzato per la prima volta l’Econatale, con prodotti italiani a spreco zero: l’imballaggio era fatto con cartone riciclato dalla Campania e mais che poteva essere interamente compostato». Lui è convinto che si possa fare molto nella filiera della logistica e degli imballaggi: «Ma il punto è recuperare lo spirito del Natale, ci aiuterebbe a gestire gli sprechi senza eccedere in retorica».
La verità, senza fronzoli, la ammette Maria Luisa Frisa, critica della moda. «Siamo diventati schizzinosi e sofisticati: una volta ricevere un regalo era un momento speciale e prezioso, bastava quello per essere contenti del gesto. Adesso se una cosa non ci piace la restituiamo, siamo diventati cinici». Le sue regole per il riciclo sono poche e ferree: «Se mi regalano qualcosa che ho già, la metto una volta davanti a chi me l’ha donata, e poi la distribuisco alle amiche, che fanno lo stesso con me: non è un segreto, e ce lo diciamo sempre. Ma io non faccio testo, ormai sono di un’altra generazione».
@elvira_serra
La stima Solo negli Stati Uniti si calcola che i pacchi in movimento saranno 6 milioni L’impatto economico La metà degli articoli è ammaccata e così non può comunque essere rimessa in vendita