E una capriola si portò via il giustizialismo
La faccia, s’intende, è sempre feroce. Ferocissima, come quella dei prodi di re Franceschiello. Tuttavia la sostanza cambia, eccome, con il codice di comportamento che oggi i militanti Cinque Stelle voteranno via web: in pensione le tricoteuse.
Nel mondo di Beppe Grillo l’avviso di garanzia non è più automatico sinonimo di morte politica. Non lo era già da un pezzo, in verità. La gestione asimmetrica dei casi di Filippo Nogarin a Livorno e Federico Pizzarotti a Parma mostrava da tempo come la discrezionalità del capo assoluto fosse il vero discrimine nel destino di un sindaco pentastellato. E come la seduzione della parolina «dipende» si fosse già insinuata nella purezza primigenia. Ma ancora ci si muoveva a tentoni, in un’oscurità normativa nella quale risuonavano solenni le parole del giovane Di Maio che, in rampa di lancio da premier (e prima di prendere lucciole per lanterne su Quarto in Campania e l’assessora Muraro a Roma), tuonava in un’intervista a Libero: «Non sono a favore della presunzione d’innocenza per i politici. Se uno è indagato, deve lasciare. Glielo chiedono gli elettori!».
Ancora un anno fa la pasionaria romana del movimento Roberta Lombardi invocava, per un avviso di garanzia, le dimissioni «immediate!» del sindaco Esterino Montino e dei consiglieri della maggioranza pd di Fiumicino.
E il centauro Di Battista ammoniva che persino Nogarin si sarebbe dovuto dimettere a meno che l’avviso di garanzia non fosse «un atto dovuto» (lo è sempre, a date condizioni), rifugiandosi nella stessa tenebra giuridica che l’aveva spinto a dichiararsi difensore della Costituzione «approvata a suffragio universale nel ‘48» (com’è noto, la Carta fu approvata dall’Assemblea costituente: quella, sì, votata da tutti gli italiani, due anni prima...).
Ora, con una capriola rispetto all’intransigenza verbale delle origini così plateale da meritarsi il plauso di Cirino Pomicino («benvenuto Grillo!»), Beppe e i suoi fedeli sembrano mettere nero su bianco l’addio al giustizialismo
almeno di grana più grossa. Chi governa, talvolta, finisce per inzaccherarsi un po’ l’orlo della giacca, spesso suo malgrado e magari, chissà, persino per una buona causa: pare questa la scoperta straordinaria che sta dietro il «codice di comportamento» per gli amministratori grillini coinvolti in vicende giudiziarie; assieme a un lodevole tentativo di coerenza dopo mesi di doppiopesismo nei quali si invocavano dimissioni altrui (a gran voce, anche per avversari non inquisiti ma solo «toccati» da qualche intercettazione imbarazzante), sempre o quasi sempre cavillando giustificazioni per i propri guai e i propri scandali.
Ci sono tuttavia due elementi politici che suggeriscono prudenza. Il primo è temporale. Il paragrafo sulla «presunzione di gravità» (e la sua esclusione, almeno in via automatica, in caso di avviso di garanzia) sembra scritto per Virginia Raggi e le prossime elezioni legislative forse anticipate a quest’anno. Nessuno,
allo stato, può escludere il rischio che la sindaca di Roma finisca sul registro degli indagati per l’infelice gestione delle carriere e degli stipendi di Raffaele Marra (al momento in galera), di suo fratello Renato e di Salvatore Romeo, per i quali la Raggi ha deciso di esporsi in prima persona.
Nell’ipotesi più infausta Grillo avrebbe dovuto condurre un’eventuale campagna politica scegliendo tra due opzioni ugualmente rovinose: mollare la sindaca certificando l’incapacità dei Cinque Stelle o sostenerla pur da indagata sotto il facile tiro degli avversari.
La contraddizione è risolta perché il Garante (Grillo stesso) e i probiviri (nominati da Grillo e soltanto ratificati dal web) decideranno «in totale autonomia» il destino politico dell’indagato e solo alla condanna di primo grado scatterà la tagliola automatica. Opportunamente si sostiene che possono essere sanzionati anche comportamenti non oggetto di indagine (la famosa indipendenza della politica rispetto alle procure). Ma è difficile non vedere come — in assenza di parametri certi — si dilati a dismisura il potere del capo assoluto, che terrà in pugno persino più di prima i suoi eletti, essendo l’imperscrutabile scelta di sommersi e salvati addirittura norma del «codice penale» grillino: è questo il secondo elemento di perplessità, assai connesso al primo, soprattutto in un movimento che già presenta zone d’ombra nei suoi processi decisionali e nella selezione delle élite («uno vale uno» è una tenera fola smentita dalla quotidianità).
Sostenere che le disavventure di Virginia Raggi abbiano spinto i Cinque Stelle su sponde garantiste potrebbe rivelarsi alla fine un errore di prospettiva. Il cambiamento è notevole, ma la sua direzione andrà letta tra qualche tempo. Per chi non ha pazienza, resta la faccia feroce: quella, in fondo, non si nega a nessuno.