Social bloccati e veline di Stato La scure di Erdogan sui media Dopo l’attacco il NYTimes sceglie di non firmare gli articoli per proteggere i reporter
«Firmato: un dipendente del New York Times». Sempre più difficile — e pericoloso — per i reporter fare il loro lavoro in Turchia. Blocchi dei social, arresti, veline e margini di manovra ridottissimi: raccontare la verità ai tempi del Sultano può costare caro. Tanto che media importanti come il New York Times, domenica, hanno deciso «di proteggere le identità dei loro reporter locali, come in Siria e in Afghanistan», evitando di firmare gli articoli sull’attacco al Reina.
Parlare di media blackout in Turchia, paradossalmente, non fa più notizia. Come di consueto in caso di terrorismo, pochi minuti dopo la strage del Bosforo l’authority per le comunicazioni del governo turco (Btk) ha imposto il blocco dei social. Un copione già visto in numerose occasioni, dal golpe di luglio passando dall’attentato all’aeroporto Ataturk fino all’uccisione dell’ambasciatore russo. Ma questa volta Erdogan ha affilato la scure della censura. Pochissime le informazioni diffuse. Alla stampa sono state passate solo le fotografie segnaletiche dei sospettati (che in un caso si sono rivelate sbagliate). Nessun aggiornamento regolare sullo stato delle indagini, nonostante un terrorista sia in fuga. «Le azioni che elogiano il terrorismo sono reati e avranno conseguenze penali», Il sistema di censura è come un enorme antivirus che agisce su comando del governo ha scritto — su Twitter — il premier Binali Yildirim. Più comodo infatti usare il terrorismo per fare piazza pulita dei giornalisti sgraditi. Il risultato è che ad oggi sono 3.700 le persone sottoposte a custodia cautelare per «commenti sui social», mentre altre 10 mila risultano indagate. Un record angosciante che va di pari passo «con il numero di giornalisti incarcerati che nel solo 2016 hanno toccato la vetta di 81 superando quelli di Iran e Cina», come sottolineano dalla Committee to Protect Journalist.
Ed è in questo clima che tre giorni fa è finito in cella Ahmet Sik, noto giornalista investigativo e contributor di testate importanti come Cumhuriyet e Reuters, accusato di propaganda terroristica per le sue posizioni filo curde. Libertà di parola L’articolo del New York Times sulla strage di Istanbul apparso senza firma