COME SMENTIRE SE STESSI: DA «MI AVETE FRAINTESO» A «MI HANNO HACKERATO»
Un tempo, quando il pensiero di una persona era reso pubblico dai media pre-digitali, c’era la smentita: «Non ho mai detto quelle frasi». In presenza di registrazioni o altro che la inibiva, si faceva ricorso alla filologia possessiva: «Le frasi sono mie, ma sono state estrapolate dal resto»; al marxismo linguistico: «Vanno lette nel contesto giusto»; alla semantica didascalica: «Il senso era metaforico!»; all’avanguardia spicciola: «Era una provocazione». Dall’ermeneutica del «Sono stato frainteso» si finiva facilmente al complottismo: «Le mie parole sono state strumentalizzate!». Oggi, politici e personaggi noti parlano tramite i social, saltando mediatori come gli uffici stampa e i giornalisti. Così, se si pentono delle loro esternazioni, non possono smentire, né smussare; ed è rischioso cancellare le frasi: se qualcuno ha fotografato lo schermo e le ritira fuori si peggiora la situazione. Che fare? Chi ha un collaboratore che ha le chiavi di accesso dell’account può dare la colpa a lui; non è elegante, ma almeno evita la scusa ridicola, da libretto scolastico: «Mi hanno hackerato il profilo, quelle frasi non le ho scritte io», sostenendo che un pirata informatico, un «hacker», è entrato nel suo profilo forzando la password. Una giustificazione che sì, è difficilmente smentibile, ma pure difficilmente credibile; comunque, sempre più diffusa: l’ha usata il compagno di una pop star per smentire certe accuse su Twitter, il calciatore famoso che aveva pubblicato tweet sconvenienti, la vegana che ha fatto su Facebook una battuta cretina sul terremoto... Intanto Trump ha promesso rivelazioni sugli hacker russi, accusati di aver favorito la sua elezione. Chissà se ne scriverà anche su Twitter: lì potrà sempre ritrattare dicendo che l’hanno hackerato.