MAGISTRATI SOTTO ACCUSA
IL PROCURATORE CACCIA VENNE ASSASSINATO PERCHÉ OSTACOLAVA COLLEGHI «DISPONIBILI»
Paola Bellone denuncia in un libro (Laterza) le deviazioni negli uffici giudiziari di Torino: furono il contesto dell’omicidio compiuto dalla ’ndrangheta nel 1983 Un groviglio su cui il Csm non ha saputo intervenire con la necessaria severità
Speriamo prima o poi di essere smentiti, ma ormai appare evidente che il processo per l’uccisione del procuratore capo di Torino Bruno Caccia non avrà mai fine. Caccia, va ricordato, è stato l’unico magistrato ucciso (il 26 giugno del 1983) da un’associazione mafiosa nel Nord Italia. Nel dicembre del 2015 (trentadue anni dopo il delitto) il pubblico ministero di Milano Marcello Tatangelo, assieme a Ilda Boccassini, aveva festeggiato la soluzione del caso di quel terribile omicidio annunciando prove schiaccianti a carico del ’ndranghetista Rocco Schirripa. Ma il magistrato milanese non si era accorto che Schirripa era già stato indagato (per le denunce del pentito Vincenzo Pavia) vent’anni prima. Lo ha scoperto un mese fa — scandalizzandosene — l’avvocato della famiglia Caccia, Fabio Repici. Così adesso tutto deve cominciare daccapo. Una vicenda infinita sulla quale, per una coincidenza, sta per essere pubblicato adesso (da Laterza) un interessante ed esaustivo libro di Paola Bellone, Tutti i nemici del procuratore. L’omicidio di Bruno Caccia. Così, per una volta, la storia arriva prima della giustizia.
Il giorno in cui Caccia fu ucciso erano in corso in Italia le elezioni politiche, quelle che decretarono un relativo crollo della Democrazia cristiana guidata da Ciriaco De Mita. Per questo l’indomani i giornali diedero un risalto non adeguato alla notizia dell’assassinio del giudice. In un primo tempo poi gli inquirenti valutarono l’ipotesi che a toglierlo di mezzo fossero stati terroristi rossi (nel 1975, da sostituto procuratore, aveva firmato la richiesta di rinvio a giudizio per i brigatisti Renato Curcio, Alberto Franceschini e Prospero Gallinari). Successivamente però le indagini si orientarono gradualmente verso la direzione giusta, quella della malavita meridionale trapiantata nel capoluogo piemontese. E in che modo Caccia dava fastidio ai «calabresi»? Semplice, sostiene la sentenza, «ostacolava la disponibilità altrui». Cioè impediva ad alcuni suoi colleghi di tenere un atteggiamento compiacente nei confronti della ’ndrangheta.
C’è però qualcosa che potrebbe apparire strano: perché i malavitosi avrebbero dovuto compiere quell’esecuzione nel momento in cui Bruno Caccia aveva chiesto l’assegnazione alla Procura di Genova e stava dunque per lasciare Torino? Perché anche a Genova quel magistrato integro avrebbe potuto ostacolare la «disponibilità altrui». Il che equivale a dire che all’epoca erano infetti i palazzi di giustizia del capoluogo piemontese, ma anche di quello ligure.
E qui il libro della Bellone — dopo una ricostruzione davvero accurata di tutta la storia — si domanda: che ne è stato di quei magistrati «inquinati»? La risposta è agghiacciante. In una prima fase la loro posizione fu vagliata dai colleghi e tutti, Franca Viola Carpinteri, Ubaldo Fazio, Luigi Moschella, Vincenzo Ferraro, furono assolti. L’unico condannato (e destituito) fu Antonio Tribisonna, ma per corruzione «impropria», cioè per aver ricevuto regalie in cambio di una sentenza di assoluzione ritenuta corretta. Moschella fu condannato solo per avere ricevuto lingotti d’oro da un malavitoso, che però non faceva parte del clan dei calabresi, e la pena gli fu condonata. Fazio e Moschella si dimisero. Gli altri rimasero al loro posto. Anche se le sentenze perlopiù non negarono la «disponibilità» dei magistrati verso i malavitosi. Si può, forse, «accettare una sentenza di assoluzione penale di magistrati disponibili», scrive Paola Bellone, «ma è più difficile accettare che tali magistrati abbiano continuato a fare i magistrati». Il Consiglio superiore della magistratura, investito del giudizio disciplinare su quei signori, ne assolse alcuni, ad altri comminò sanzioni peraltro lievi. Ma tutti, ripetiamo, rimasero al loro posto.
Franca Carpinteri fu mandata a processo per interessi privati in atti d’ufficio, per aver assolto — su sollecitazione di Pasquale Cananzi (ucciso per un regolamento di conti in quello stesso 1983) — l’imputato Muzio, «Peppino ‘u banditu», accusato per reati di droga. Carpinteri, precisa Bellone, fu assolta perché non fu provato né che Muzio fosse colpevole (e di conseguenza non fu dimostrato che la sua sentenza fosse ingiusta) né che Cananzi l’avesse realmente sollecitata ad assolvere Muzio («aveva una vocazione per la millanteria ed è possibile che si sia solo vantato di averlo fatto»). Nello stesso processo era imputato il magistrato Tribisonna, e lui, siccome fu ritenuto provato che avesse ricevuto un «regalo» per aver assolto Muzio, non poté evitare la condanna per corruzione, ancorché «impropria». Ma il pm che mandò a giudizio Franca Carpinteri (e Muzio) sosteneva che la sentenza fosse frutto di una «deviazione dolosa». Tanto più che la Carpinteri aveva ammesso di aver giocato a poker allo stesso tavolo con Cananzi, di essere stata almeno una volta a casa sua, di aver acquistato da lui un orologio. A chi storceva il naso, i giudici risposero di aver voluto essere «garantisti». Così la Carpinteri continuò a fare il magistrato, prima come giudice del tribunale di Asti, poi come giudice di Appello a Genova. Ad Asti ebbe poi altri due incidenti professionali per i quali fu sottoposta nuovamente a procedimento disciplinare. Aveva ordinato la distruzione di nastri tra i quali c’era la registrazione di conversazioni tra lei e una sua amica, moglie di un esponente socialista indagato. Poi aveva fatto scadere i termini delle indagini contro un gruppo di imprenditori inquisiti per truffa aggravata ai danni dell’erario. Stavolta il Csm non credette più alla versione della mancanza di cautela e questo le costò, ironizza la Bellone, una «severa, si fa per dire, sanzione»: un’ammonizione.
Vincenzo Ferraro, che aveva organizzato le allegre partite a carte a cui avevano partecipato la Carpinteri e Cananzi, era sotto osservazione da una ventina d’anni. I suoi colleghi avevano puntato su di lui i riflettori nel 1962, allorché fu sottoposto a procedimento disciplinare per i ritardi di alcune sentenze. Quella volta fu assolto. La prima sanzione gli arrivò nel 1963, allorché fu riconosciuto colpevole di essersi assentato senza giustificazione — quando era pretore di Caulonia (Reggio Calabria) — dal posto di lavoro, di non aver interrogato alcuni fermati, di aver trasmesso in ritardo le sentenze al procuratore della Repubblica (talvolta dopo che erano scaduti i termini entro i quali si sarebbe potuto impugnarle), di non essersi astenuto in un processo penale in