John Berger
Non è facile parlare di John Berger. Descriverne le tante identità è quasi impossibile. Non ha un analogo nel panorama della cultura europea del secondo dopoguerra. Un involontario erede del grande Walter Benjamin. Forse, egli è stato «semplicemente» uno scrittore (amava definirsi storyteller), che ha declinato la pratica della scrittura su diversi registri: la narrativa, la drammaturgia, la sceneggiatura, l’articolo politico, l’intervento militante, la critica d’arte, finanche il disegno.
In fondo, Berger ha pensato ogni suo «esercizio» come un momento consapevolmente parziale e provvisorio all’interno di un unico gesto. Alberto Savinio lo avrebbe definito un «incongregabile». Un irregolare. Una personalità poliedrica. Un eccentrico, che affida il suo temperamento irrequieto a libri posti al di là di ogni gerarchia: dai romanzi (G., edito da Neri Pozza; Festa di nozze, pubblicato dal Saggiatore) alle raccolte di saggi: Questione di sguardi (il Saggiatore); Sul guardare (Bruno Mondadori); Sacche di resistenza (Giano), Modi di vedere (Bollati Boringhieri).
Non si riesce mai a catalogare questi libri. Romanzi? Saggi? Articoli? Privi di centro, ma sempre illuminanti. Governati da un’ostinata ricerca del non-finito, dell’irrisolto, dell’incompiuto. In essi, convivono figure lontane, situazioni ed esperienze poco affini. Sono una sfida alla coerenza. Simili a cantieri aperti, chiedono di essere iniziati e interrotti dove si vuole; e sembrano continuarsi tra di loro. È come se Berger ci dicesse sempre: questo non è «solo» un libro, è la messa in scena del mio laboratorio.
Siamo dinanzi a involontari poemi in prosa. Che amano disorientare chi si confronta con essi. Offrendosi come dedali sorprendenti: labirinti che, potremmo dire con Benjamin, rappresentano «la via giusta per chi arriverà comunque in tempo alla meta».
Nelle pagine di Berger, si succedono movimenti centrifughi, che lo portano ad allontanarsi dai suoi oggetti di analisi. Egli sembra smarrirsi, deragliare, transitando attraverso visioni non contigue. Ci conduce dove non siamo mai stati. Suggerisce così analogie e corrispondenze inesplorate. A volte le sue interpretazioni potrebbero apparire «scorrette», eppure spesso riescono a svelarci inattesi squarci di senso.
Berger si affida all’artificio della divagazione scultura, a una fotografia o a una figura politica, Berger non ripete il già-detto. Sceglie scorci. Frequenta soprattutto i dettagli minimi. Predilige i lapsus stilistici, le pieghe segrete, gli aspetti imprevisti, i barlumi visivi. Tende a non indugiare mai sul centro del suo tema di studio. Abile nel sottrarsi a ogni «inciampo» teorico, estrae i suoi giudizi dalle «cose» con cui si misura. Siamo al cospetto di uno scrittore che agisce come i creatori di bassorilievi: sulla pagina blocca gesti, posture e movimenti di individui, che vengono proiettati verso di noi, nella loro intatta e concreta umanità.
Ma la vera ossessione di Berger sono le immagini: il visibile, nella sua dimensione perturbante e misteriosa. Pur diversi tra di loro, i suoi libri potrebbero essere interpretati come avventure per decifrare proprio le immagini: da quelle antiche a quelle contemporanee, da quelle artistiche a quelle letterarie, a quelle politiche. Con esse Berger avvia un dialogo originale appassionato: le indaga da vicino; le interroga; le concepisce come se nessuno prima le avesse decifrate. Sapiente nell’intrecciare intuizione impressionistica, talento letterario e azzardo