Ecco Michelangelo, l’ira e il castigo
Nel 1536, due decenni dopo aver portato a termine la volta della Cappella Sistina, cominciò a dipingere il Giudizio universale sulla gigantesca parete alle spalle dell’altare. Forse è il più grande affresco in Europa? Una miriade di figure, tutte nude, perlopiù uomini. Altri scrittori lo hanno paragonato alle opere tarde di Rembrandt o di Beethoven, ma non riesco a seguirli. Quel che vedo è puro terrore e il terrore è intimamente connesso con la volta sovrastante. L’uomo su questa parete è ancora nudo, ma adesso è la misura del nulla! Tutto è cambiato. Lo spirito del Rinascimento è finito. Roma è stata saccheggiata. L’Inquisizione sta per essere istituita. Ovunque la paura ha preso il posto della speranza, e lui sta invecchiando. Forse è come il nostro mondo di oggi. D’un tratto mi vengono in mente le immagini di Sebastião Salgado: le sue foto della miniera d’oro brasiliana e delle miniere di carbone in Bihar, India. Entrambi gli artisti sono sconvolti da ciò che devono raffigurare, entrambi mostrano corpi contratti fino a un analogo punto di rottura che, in qualche modo, i corpi sembrano sopportare! La somiglianza finisce lì, perché le sue figure sono mostruosamente inattive. La loro energia, i loro corpi, le loro grandi mani, i loro sensi, sono diventati superflui. L’umanità è diventata sterile, e non c’è nessuna differenza fra i salvati e i dannati. Non rimane nessun sogno in nessun corpo, per quanto meraviglioso fosse una volta quel corpo. Ci sono solo ira e castigo — come se Dio avesse abbandonato l’uomo alla natura e la natura fosse diventata cieca! Cieca? Alla fin fine, non è vero. Michelangelo visse e lavorò per altri due decenni dopo aver dipinto Il Giudizio universale. E quando morì, a 89 anni, stava scolpendo una Pietà marmorea. La cosiddetta, incompiuta Pietà Rondanini.
( traduzione di Maria Nadotti) Il fiore di una cipolla disegnato da John Berger per la copertina de «la Lettura» #119 del 2 marzo 2014. Sotto: Text of stone with holes, opera pubblicata su «la Lettura» #200 del 27 settembre 2015 Di fronte ad artisti, opere, fotografie, personaggi sceglieva scorci inediti, prospettive, dettagli. Così una nuova biografia/geografia prendeva forma
interpretativo, si sofferma su quello che non si manifesta subito a uno spettatore.
Inquieto flâneur, Berger ha una rara maestria nel trascrivere sulla pagina quello che ha colto. Guarda le immagini con un occhio non contaminato da sovrastrutture culturali e ideologiche. I riferimenti storici, per lui, sono come sfondi sui quali compone una drammaturgia narrativa melodiosa, ritmica, piana, che però, d’incanto, sembra infiammarsi.
Il significato di questa filosofia è nell’incipit di Questione di sguardi: «Il vedere viene prima delle parole. Il bambino guarda e riconosce prima di essere in grado di parlare. (…) È il vedere che determina il nostro posto all’interno del mondo che ci circonda; quel mondo può essere spiegato a parole, ma le parole non possono annullare il fatto che ne siamo circondati. (…). Ogni sera vediamo tramontare il Sole».