Claudio Gorlier, l’americanista de «La donna della domenica»
Sottolineare puntigliosamente come «non si dice Boston, si dice Baastn» in un passaggio esilarante di un grande romanzo italiano come La donna della domenica di Fruttero & Lucentini garantisce sì una forma di immortalità letteraria per interposta persona — per interposto personaggio —, ma sarebbe riduttivo ricordare Claudio Gorlier, scomparso all’età di 90 anni, prima di tutto come l’ispiratore del personaggio dell’americanista Bonetto.
Perché Gorlier merita di essere ricordato prima di tutto come uno studioso — un lettore — di straordinario gusto e di fiuto altrettanto straordinario: fu uno dei più grandi conoscitori italiani di letteratura di lingua inglese, ma soprattutto capì al volo la grandezza di tanti scrittori «difficili». Jack Kerouac, Philip Roth (Gorlier perorò la causa del dissacrante Lamento di Portnoy in un’Italia molto diversa da quella attuale), Gore Vidal (fu Gorlier a favorire la pubblicazione di Giuliano, e dopo che Rizzoli aveva scartato Myra Breckinridge — non è difficile immaginare che la protagonista transgender risultasse troppo osé per gli anni Sessanta — trovò casa da Bompiani per quel ca- polavoro così attuale nel 2017. Per Gorlier, Vidal apparteneva al canone novecentesco).
Comunista per un breve periodo (lavorò anche all’«Unità») nel dopoguerra (ma rimase sempre un fan vita natural durante del Partito d’azione oltre che della Juventus), fu amico di grandissimi come Italo Calvino e grandi come Carlo Fruttero (li legava anche la comune fede bianconera), ebbe una prestigiosa carriera accademica (docente di Letteratura anglosassone presso Ca’ Foscari, Letteratura inglese alla Bocconi, Letteratura dei Paesi anglofoni presso l’Università di Torino). Ma è giusto ricordarlo anche come autore di introduzioni lucidissime e piene di dati — sarebbe bello ritrovarle tutte raccolte in un volume, diventerebbe un riferimento per gli italiani che amano la letteratura di lingua inglese — e per la capacità di spiegare con grande chiarezza libri difficili (curò le Opere di Melville per i Meridiani, YouTube conserva per i posteri un’interessante introduzione televisiva, degli anni Sessanta, all’Ulisse di Joyce).
Adesso è di moda, in nome del multiculturalismo, citare Chimamanda Ngozi Adichie (con o senza averla letta), ma un’altra intuizione di Gorlier fu il grande e appassionato supporto — quando non era di moda, quarant’anni fa — alla letteratura di lingua inglese dell’Africa, da Soyinka a Coetzee, che inquadrò correttamente come autori da Nobel prima che lo vincessero.
L’inglese lingua del mondo, non di Usa/Canada e Regno Unito + Irlanda: forse fu l’imprinting della laurea con lode sfumata per l’obiezione insensata che gli fu rivolta (portava una tesi su T.S. Eliot), «come fa un americano emigrato in Inghilterra a capire Dante?». Un errore di analisi che Gorlier non avrebbe mai fatto. Chi ama gli scrittori da lui raccontati, e protetti, non può non riservargli gratitudine.