Corriere della Sera

Il dolore per le ingiustizi­e nei versi di un’insolita Frida

- di Franco Cordelli

«Forse ho raggiunto l’età in cui gli occhi si sono inariditi per sempre. Forse ho dimenticat­o… ma credo che mai dei versi, per quanto belli, per quanto commoventi fossero, mi abbiano fatto piangere» — così scriveva Luis Aragon nel 1971 introducen­do Pietre ripetizion­i sbarre di Ghiannis Ritsos. L’anno prima Ritsos era arrivato anche in Italia con due libri, Poesie, tradotto da Filippo Maria P ontani, e Epitaffio Makr on issos, tradotto da NicolaCr oc etti. Makr on issosè per la storia di questo grande poeta greco un nome cruciale: vi fu imprigiona­to negli anni Trenta perché era comunista; e per la stessa ragione, negli anni Sessanta, sua prigione furono altre due isole, Ghiaros e Leros. È del 1972 Quarta dimensione: diciassett­e poemetti, intitolati a personaggi mitologici. Uno di essi, Fedra, ci giunge proposto dal Teatro dei Due Mari (che è di Tindari) per la regia di Edoardo Siravo e Francesco Vigorito e nell’ interpreta­zione di Stefania Barca.

In teatro Fedra ha avuto almeno cinque grandi lettori: Euripide, Seneca, Racine, D’Annunzio e Sarah Kane. Bisognerà aggiungere Ovidio (una lettera delle Eroidi) e Algernon Swinburne, un poemetto drammatico. E un vero e proprio poemetto drammatico è Fedra di Ritsos: due lunghe didascalie, in apertura e in chiusura, riassumono storia e situazione del personaggi­o. Difficile, quasi impossibil­e, coglierne il senso ultimo, tanto intima è la voce di chi parla: Fedra parla, ma a chi parla se non a se stessa? E forse neppure a se stessa, forse neppure parla: di lei si coglie, nei versi di Ritsos, l’anima, non già la voce. Ippolito, il figlio del marito Teseo, è di fronte all’amore della matrigna come una statua: non ascolta, non vede: «Oh, timore e esultanza della fine, - che finisca tutto/tu, io e la nostra differenza». Ma questa Fedra è assai diversa da un personaggi­o mitologico e da una generica, moderna Fedra. La sua consapevol­ezza di sé è assoluta: «Che sentimenti sciocchi, mi dico, così iperbolici, - e non è che ci lascino/un minimo di spazio libero per noi, per poter fare un passo/ foss’anche in direzione della morte. Che storia stupida, estranea, estranea». La coscienza della Fedra di Ritsos arriva all’estremo. Dice: «Osservo inosservat­a. Sono lieta della mia assenza». Ma a un passo dalla soluzione (abbandono della scena - un cappio al collo) commenta: «Il nostro dolore, anche il più infimo, ci tormenta/assai più del dolore del mondo intero. E quale mai dolore è insignific­ante d’altronde?»… «L’ingiustizi­a/verso un altro si combatte, e talvolta si vince./Ma l’ingiustizi­a della natura — come dire? — è inoppugnab­ile».

Credo sia difficile per un’attrice sottrarsi alla tentazione di ampliare questi versi, commoventi proprio come scrive Aragon — e Stefania Barca in effetti li recita con accenti mimetici, a piena voce e, direi, a piene mani — accompagna­ta da una regia invece attenta agli spazi. Ma non sarebbe stata pari o miglior tentazione, immobili, o quasi immobili, mormorare-scandire, scandire-mormorare? Fedra regia di Edoardo Siravo 6 

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Protagonis­ta L’attrice Stefania Barca in un momento dello spettacolo in cui interpreta una Fedra diversa dal solito

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