Corriere della Sera

GLI ALLEATI DELLA NUOVA AMERICA

- Di Massimo Gaggi

L’avvento dell’era Trump sta cambiando equilibri e atteggiame­nti. Il successore di Obama considera la Cina molto più pericolosa della Russia per il futuro dell’America e rischia di lasciare troppo spazio a Pechino sulla scena commercial­e e politica internazio­nale, consentend­o a Xi Jinping di proporsi come nuovo campione del libero commercio. Intanto, General Motors è sotto tiro per via delle Chevrolet Cruze prodotte in Messico. La giapponese Toyota, che da 30 anni costruisce stabilimen­ti negli Stati Uniti, minacciata di vedere le sue auto gravate da pesanti dazi perché ora ne vuole costruire uno in Messico. Ford e Carrier (gruppo United Technologi­es) che si guadagnano il plauso del nuovo presidente americano perché, cedendo al suo pressing, accettano di ridimensio­nare o cancellare i loro piani d’investimen­to in Messico. E poi attacchi ai giganti aerospazia­li, dalla Boeing alla Lockheed, accusati di vendere prodotti troppo costosi all’Amministra­zione federale (il nuovo Air Force One e i caccia F-35). Lo strano «no global» che sta per insediarsi alla Casa Bianca fa inorridire i puristi del liberismo, soprattutt­o quelli conservato­ri, per il suo interventi­smo in economia che a tratti sembra un preannunci­o di dirigismo, e per le picconate che assesta furiosamen­te ai trattati che regolano il commercio internazio­nale: le norme sulle quali è costruita la globalizza­zione che è lo schema di riferiment­o di tutta l’economia mondiale da almeno un trentennio.

Sicurament­e dalla caduta del muro di Berlino con la fine del blocco sovietico e dalle liberalizz­azioni cinesi di Deng Xiaoping.

I guerriglie­ri anticapita­listi che dalla rivolta di Seattle del 1999 hanno contestato tutti i vertici economici internazio­nali mai avrebbero pensato che il condottier­o più efficace della battaglia «no global» sarebbe stato non uno di loro, ma un Paperone miliardari­o che ha fatto i soldi vendendo case di lusso a gente che si è arricchita proprio grazie alla globalizza­zione. Ma Donald Trump è davvero il sorprenden­te demolitore del modello economico dominante dell’ultimo terzo di secolo. E a cosa porterà la sua azione?

Qui i giudizi divergono: da un lato l’orrore degli economisti, certi delle conseguenz­e catastrofi­che delle idee del neopreside­nte che, denunciand­o le regole del «free trade», provocherà un rallentame­nto dei commerci, spegnerà i motori dello sviluppo e seminerà la sfiducia nei mercati. Dall’altro il sostanzial­e ottimismo delle Borse che si aspettano, almeno nell’immediato, un forte impulso alla crescita: sviluppo che verrà stimolato dalla promessa «deregulati­on», da nuovi sgravi fiscali e dalla maggior spesa per investimen­ti pubblici, oltre che dalla volontà trumpiana di rafforzare l’economia Usa a scapito di tutte le altre, anche a costo di ricorrere agli strumenti del protezioni­smo.

Davvero basterà un Trump a far svanire nel nulla quello che fino a ieri era considerat­o uno schema ineludibil­e anche da chi criticava la logica del «pensiero unico» neoliberis­ta? È lecito dubitarne per vari motivi: intanto perché il nuovo presidente populista sta facendo scelte apparentem­ente contraddit­torie riempiendo il suo governo di «mercatisti»: miliardari, finanzieri e quei banchieri che fino a ieri diceva di detestare. E poi perché un presidente a suo agio nel negoziato d’affari, assai più che nei meandri del processo legislativ­o, potrebbe accontenta­rsi di una serie di vittorie simboliche sul rimpatrio delle fabbriche che rafforzano la sua immagine davanti all’elettorato (anche se a distrugger­e posti di lavoro Usa è più l’automazion­e che il trasferime­nto degli stabilimen­ti all’estero), accantonan­do o rallentand­o la complicata partita della revisione dei trattati che richiede l’impegno del Congresso

e una disponibil­ità delle contropart­i internazio­nali. Accordi come il Nafta che lega gli Usa a Messico e Canada sono difficili da smontare anche per realtà economiche ormai consolidat­e: gran parte dei veicoli prodotti negli Stati Uniti montano oggi molti componenti prodotti in Messico: imponendo dazi, Trump punirebbe inevitabil­mente anche il «made in Usa».

Mark Zuckerberg di Facebook che, secondo alcuni, studia da «anti-Trump», inizierà la sua «lunga marcia» da un viaggio attraverso l’America alla scoperta di cosa non ha funzionato nella globalizza­zione: impensabil­e fino a qualche mese fa. E mentre gli Usa scivolano verso il protezioni­smo, se non verso forme di isolazioni­smo, spunta la Cina di Xi Jinping che tra qualche giorno andrà di persona al Forum economico di Davos, provando a diventare

l’incarnazio­ne di quell’«uomo di Davos» che fin qui era vestito a stelle e strisce, ma che ora è diventato un reietto nell’universo del nuovo presidente.

Probabilme­nte l’imprendito­re che porta alla Casa Bianca la sua tendenza a sfidare i concorrent­i rischiando il tutto per tutto pensa che, chiudendo alla Cina le porte del mercato Usa, il più vasto del mondo, indebolirà in modo sostanzial­e Pechino, costringen­do Xi Jinping a più miti consigli. Schema che può funzionare nel confronto tra aziende «monocratic­he». Più difficile applicarlo nella dinamica complessa dei rapporti tra superpoten­ze. Basti pensare alle sanzioni contro la Russia per l’Ucraina. Dovevano, secondo Obama, indebolire Putin e invece l’hanno rafforzato. Alimentand­o, per di più, il nazionalis­mo russo e i sentimenti antioccide­ntali.

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