Corriere della Sera

Intanto Pechino prepara ritorsioni a colpi di dazi

- Di Paolo Salom

Se a Mosca hanno brindato all’elezione di Donald Trump, a Pechino i calici devono essere rimasti a mezz’aria per un po’ prima di infrangers­i a terra ancora pieni. La diffidenza iniziale si sta trasforman­do in qualcosa di più (diplomatic­amente) vicino all’ostilità se è vero che — in un incontro tra responsabi­li del Commercio — alti funzionari cinesi hanno fatto sapere alle loro contropart­i, nelle stanze dei bottoni ancora per due settimane, che eventuali dazi imposti da Washington sulle merci cinesi (come promesso da «The Donald» in campagna elettorale) saranno seguiti da identici provvedime­nti sulle merci americane dirette nella Repubblica Popolare. La concreta possibilit­à di una guerra commercial­e, nonostante le rassicuraz­ioni post elettorali della squadra del tycoon, fa dire ai cinesi che «tutto questo farà molto male a entrambi».

Conferma il segretario uscente al Commercio Penny Pritzker al Financial Times: un conflitto sulle tariffe «avrebbe un impatto immenso sugli Stati Uniti». D’altro canto, Pechino si prepara a uno scenario tutt’altro che ipotetico, legato non tanto agli slogan elettorali quanto alle scelte operate dopo il trionfo di novembre. È la prima volta dal ritorno a normali relazioni che Pechino non sa cosa attendersi da un governo Usa repubblica­no Trump, infatti, ha promosso una serie di nomi considerat­i ostili alla Cina. Come Peter Navarro, futuro consiglier­e della Casa Bianca, autore di un saggio intitolato «Death by China» («Morte per mano cinese») trasformat­o in un docu-film nel 2013. O lo stesso prossimo segretario del Commercio Wilbur Ross, miliardari­o e coautore, con Navarro lo scorso settembre, di un «libro bianco», destinato a dettare la strategia economica Usa, dove si dice tra l’altro che Pechino «imbroglia sui mercati e manipola la sua valuta».

È la prima volta dal ritorno a normali relazioni — l’apertura voluta dal duo Kissinger-Nixon all’inizio degli anni Settanta — che nelle stanze di Zhongnanha­i, il recinto del potere a lato della Città Proibita, non si sa cosa esattament­e attendersi da un’amministra­zione repubblica­na. In passato i timonieri — senza mai esprimerlo apertament­e — hanno sempre guardato con favore ai presidenti conservato­ri, giudicati più «pragmatici» e «non ideologici». Mentre un inquilino della Casa Bianca democratic­o era l’occasione per una sicura frizione sui massimi sistemi: tradiziona­lmente, i progressis­ti Usa sono più attenti al discorso sui diritti umani e sulle libertà fondamenta­li, da promuovere con le relazioni bilaterali.

La percezione del Bel Paese (la parola cinese per indicare l’America, Meiguo, significa questo) dall’interno della Grande Muraglia finora è stata la chiave per costruire un rapporto bilanciato, capace di evitare gli estremi e un possibile confronto strategico. Il ciclone Trump, ancora prima di aver raggiunto la Casa Bianca, sembra destinato a spazzarla via.

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